Per parlarvi de Il turno di Grace di William Wall (Nutrimenti Edizioni) ci vorrebbero due recensioni. Una molto formale, che sviscera il concetto di narrazione in chiave psicologica, soggettiva e dunque parziale, stratificazioni – attingo qui direttamente dal testo – di significato che dipendono dal nostro punto di vista, dal nostro desiderio di seguire la traccia e da fino a che punto la nostra presenza alteri la situazione (pag. 84). E di quanto sia facile diventare intrusi nella nostra stessa storia (ibid). Ma è ancora più facile diventare intrusi, d lettori, nelle storie altrui. Cos’altro sono, altrimenti, le recensioni? Però io non voglio essere un’intrusa nel raccontarvi de Il turno di Grace. Quindi mi atterrò al mio consueto modo di scrivere recensioni: oggettivo per quanto possibile, obiettivo quanto è nelle mie capacità.
Il turno di Grace è il romanzo con il quale William Wall, autore irlandese nato nel 1955, debutta sulla scena editoriale italiana, paese – il nostro – che conosce benissimo dal momento che vive parzialmente a Camogli. Non è quindi un caso se proprio l’atmosfera di una notte di festa in Liguria tornerà, nella storia, come innesco per la catarsi finale.
Grace è la maggiore di tre sorelle che vivono con i genitori su un’isola al largo della costa di Cork. Il padre è uno scrittore che ha costruito il proprio successo raccontando la vita della famiglia su Castle Island, un’isola selvatica, strappata agli ingranaggi conformanti della società degli anni Sessanta, già permeata dal consumismo dilagante e riconsegnata al contatto integrale con la natura. Una famiglia, insomma, che è più simile a un esperimento sociologico che a un legame tra sangue e affetto, che è più un immenso serbatoio di storie da cui attingere per scrivere l’ennesimo best seller che a qualcosa da nutrire e accudire.
«I libri di mio padre, e i suoi articoli di colore per il Manchester Guardian, in cui fra invenzione e realtà veniva ritratta una famiglia capace di sopravvivere su un’isola ai confini del mondo, erano acclamati quando noi eravamo piccole. Cioè alla fine degli anni Sessanta, quando il mondo intero era impazzito simultaneamente per due forme incompatibili di idolatria: l’autosufficienza economica e la smania di consumo. I libri di mio padre descrivevano la prima, ma lui, come avrei in seguito imparato, era decisamente più attratto dalla prima»
E infatti Tom non c’è quasi mai. Al suo posto c’è Richard, un poeta (troppo) amico di famiglia; c’è una madre abile affabulatrice tanto quanto è labile il suo contatto con la realtà, e ci sono tre bambine, Grace e le sue sorelle – Jeannie ed Em – che hanno, in qualche modo, la responsabilità di vivere un’esistenza che il padre ha scritto per loro come un copione, in cui il confine tra interpretazione e autenticità è stato raschiato fino quasi a cancellarlo. E, infatti, chi può dire se ciò che ricordano a posteriori Grace e Jeannie – le due voce narranti che si alternano tra le pagine – sia verità e non narrazione, che la loro memoria sia identità e non costruzione metanarrativa in cui si è compiuto il passaggio da persone a personaggi? Ma, soprattutto, chi può dire cosa è successo veramente a Em?
Em è la più selvaggia delle tre. Se a Jeannie piace costruire elaborate città di sabbia e Grace è quella più curiosa (come a dire che una è terra e l’altra è cielo, sorelle destinate a non incontrarsi se non in un orizzonte lontano e sfumato), Em è impavida e incurante e tocca alle altre due, a turno, fare attenzione a che i suoi impeti non inciampino in tragedia. Solo che durante il turno di Grace qualcosa va storto e quello che in apparenza è un gioco manda in frantumi ogni cosa: l’esperimento, la famiglia, il rapporto tra sorelle, il rapporto tra genitori e figlie.
Da questo momento in poi, il compito di Grace sarà quello di rimettere insieme i pezzi della memoria, la propria e quella altrui, per scoprire cosa è accaduto veramente la notte in cui Em è caduta in mare.
Ritmo da thriller, atmosfere da tragedia greca, stile epico, scrittura ellittica, uso inappellabile del discorso diretto libero (alla Sally Rooney, per chi conosce questa autrice, anche lei irlandese). Le parole di William Wall sono testarde e trascendenti, eteree e liricheggianti, metafore in cui l’originalità letteraria assume dimensioni crudeli e la principale componente di quest’originalità è il modo in cui è riconcettualizzato il limite tra poesia e prosa, verità e mimesi per descrivere la fallacità della narrazione, lo scarto tra il ricordo diacronico e quello sincronico e le affinità nascoste tra vivere e raccontare. Questo libro è un viaggio freudiano nella psicologia dei personaggi («Oh Elettra, che desidera il padre perché non può avere la madre al suo posto.»), archetipi perfetti dell’antieroe.
Se Il turno di Grace non è uno di quei romanzi che si leggono tutto d’un fiato è solo perché il lettore necessita di ritornare in superficie per prendere ossigeno, dopo l’immersione negli abissi della storia. Si legge, piuttosto, a bracciate, nuotando verso una riva che può essere quella dell’isola di Wight o quella di Procida, un luogo, in ogni caso, capace di accoglierci come naufraghi dopo una tempesta.
Possibile che lì ad attenderci ci sia lo stesso autore, con lo stesso sguardo elusivo e un po’ beffardo con cui ci guarda dalla foto di copertina, uno sguardo che un po’ ci sfida a immergerci ancora e ancora tra le sue pagine.
