La Bridgerton-mania ha coinvolto anche la sottoscritta autrice di questo blog (che, peraltro, in questo momento si sente tanto Mrs Whistledown).
Dopo aver visto la serie tv firmata Shonda Rhymes (il cui nome, almeno per me, è legato in maniera indissolubile a Grey’s Anatomy, anche se, nel frattempo, è diventata la donna più potente dello show biz internazionale), non sono riuscita a trattenermi dal leggere il romanzo di Julia Quinn, Il duca e io (Mondadori Editore), da cui è tratto – o sarebbe più giusto dire a cui si ispira?
Che letteratura e cinema siano due codici espressivi diversi (anche se, ultimamente, si nota un accresciuto grado di conformità del primo al secondo, soprattutto per la rassomiglianza degli stilemi proposti) è affermazione tanto arcinota quanto retorica, tanto più che in questo caso i due termini dell’equazione libro e prodotto audiovisivo sono dei sottogeneri di entrambi: da una parte un tipico romance e dall’altra una serie tv (attualmente trasmessa da Netflix). Il risultato è quindi imperfetto per definizione e, forse, non andrebbe nemmeno cercato. Ma i lettori hanno questa specie di compulsione a cercare identità tra forme. E questa lettrice qui, in definitiva, non è diversa dalle altre.

Iniziamo dal libro. Il duca e io è il primo volume della serie de I Bridgerton all’interno della quale l’autrice americana Julia Quinn racconta le vicende, perlopiù amorose e matrimoniali, dei fratelli Bridgerton, appunto. Siamo all’epoca della reggenza inglese (1811-1820) e, dopo la morte del marito, il Visconte di Bridgerton, la moglie, Lady Violet, è fermamente intenzionata ad accasare ognuno dei suoi otto figli, battezzati tutti rigorosamente in ordine alfabetico: Anthony, Benedict, Colin, Daphne, Eloise, Francesca, Gregory, Hyacinth. Potendo, gli uomini, prendersela un po’ più comoda, a dare inizio alla caccia al consorte è Daphne, la maggiore delle ragazze che, in effetti, ha debuttato già da una Stagione e si appresta ad affrontare la seconda con, davanti a sé, l’incubo di restare zitella se non riesce a trovare il marito perfetto. Che rappresenta uno dei due ostacoli principali della sua quête: desiderare, ovvero, di sposarsi per amore, proprio come i suoi genitori. Il che implica che non sia solo alla ricerca di un buon partito ma anche dell’uomo giusto, due cose che non sempre si possono trovare confezionate sotto le medesime sembianze. L’altro intoppo è rappresentato dal fatto che per il suo arguto senso dell’umorismo e la parlantina sciolta, Daphne viene considerata dagli uomini più un’amica che una potenziale fidanzata, e meno ancora una moglie.
Da qui, il patto col diavolo. Sorte vuole che nella Stagione del 1813 faccia ritorno a Londra Simon Arthur Henry Fitzranulph Basset, nuovo duca di Hastings ed erede di uno dei titoli più antichi e prestigiosi d’Inghilterra. Scapolo assai ambito, anzi, letteralmente perseguitato da schiere di madri che farebbero di tutto pur di combinare un buon matrimonio per le loro fanciulle, Simon, è tuttavia alquanto riluttante a concedere la propria mano. Al limite, meglio fingere, e Daphne Bridgerton, sorella del suo vecchio amico Anthony, gli offre il destro perfetto: si fingeranno fidanzati e così saranno lasciati finalmente in pace. Va da sé che, ballo dopo ballo, conversazione dopo conversazione, quella che era iniziata come una recita rischia di trasformarsi in realtà.
Il tutto sotto gli occhi, e la penna, di Mrs Whistledown, una misteriosa cronachista che conosce tutto, ma proprio tutto, del ton e ne scrive nel suo giornale, Le cronache mondane di Mrs Whistledown, appunto. Le colonne più odiate e, allo stesso tempo, più ricercate della society londinese.

Julia Quinn, benché con uno stile pulito e decisamente scorrevole, sa che i suoi sono romanzi di puro intrattenimento ed è questa consapevolezza a rendere attraente la lettura. Per esempio, sa fare riferimento a Jane Austen e a Orgoglio e Pregiudizio (è chiaro che la madre di tutte le madri in cerca di uno scapolo dotato di una buona rendita è Mrs Bennet, ma Mrs Bridgerton non potrebbe essere più diversa) senza prendersi troppo sul serio e senza ruffianeria, capovolgendo con giudizio i temi narrativi della Austen invece che scopiazzarli infantilmente. Sa introdurre, altresì, argomenti “scottanti” (il matrimonio come contratto sociale, la famiglia, l’ignoranza sulla sessualità in cui erano tenute le donne) senza scadere nell’ordinario o nel morboso. Sa costruire personaggi solidi e dialoghi brillanti. Sa plasmare una struttura non scontata, con tanto di sequel inglobato nella trama principale perché tutti vogliamo sapere anche cosa succede dopo…
E, tuttavia, nelle sue opere (sì, al plurale, perché sto proseguendo con la serie e lo stesso difetto l’ho riscontrato nel secondo volume della serie, Il visconte che mi amava, dedicato alle prospettive matrimoniali e ai desideri di Anthony Bridgerton) c’è un anello che non tiene, una piccola crepa, un qualcosa (di solito è proprio la ragione per cui l’eroe e l’eroina non dovrebbero vivere felici e contenti) che proprio non è credibile.
In questo, la serie firmata Shonda Rhymes dà una pista al libro. Può essere infedele quanto si vuole (non solo alla storia, ma anche ai costumi dell’epoca, alle ambientazioni, alla scelta del cast), ma tradisce proprio in ciò che nel romanzo non funziona, sicché più che tradimento lo definirei un sopperimento quasi necessario.
Ma Bridgerton piace, e i romanzi di Julia Quinn anche. Entrambi hanno quel tocco di colore che ogni tanto ci vuole. Sullo schermo e sulla carta.
ATTENZIONE SPOILER! Non leggete assolutamente il secondo epilogo presente nel volume, se avete intenzione di proseguire la serie!