L’isola senza tempo di Gianluca Mercadante (Las Vegas Editore) è uno di quei libri dietro la cui apparente semplicità dell’intreccio, in bilico tra realtà e fantasia, si nasconde una trama di argomenti complessi e di sferzante attualità. Ma è anche una storia intima e accogliente, che avvolge il lettore in una spirale di avvenimenti che terranno il lettore sospeso dalla prima all’ultima pagina, come se stesse leggendo un thriller e non l’addio, forse struggente, forse semplicemente doveroso, tra un padre e un figlio.
Biagio, che però all’anagrafe è stato iscritto come Luigino, sta per partire con il suo compagno Andrea (incidentalmente sposato e padre di una figlia) per un’agognata vacanza, ma proprio mentre è in coda al gate prima di salire sull’aereo è raggiunto dalla telefonata di Angela, OSS della struttura in cui Marcello, il padre di Biagio, ottantaquattro anni e una demenza senile in omaggio, che gli annuncia un improvviso peggioramento e la conseguente necessità di un ricovero in ospedale. Pur tra dubbi e malcelati silenzi, Biagio decide di risalire sulla sua vecchia Clio del 2001 (omaggio al suo amato regista Kubrick; Biagio – tra le altre cose – è un maniaco cinefilo) e tornare dal padre. In ospedale, tuttavia, l’uomo che incontra Biagio non è un vecchietto prossimo alla fine, ma un uomo nel pieno delle sue facoltà mentali che gli propone, come prima cosa, un altro viaggio in cambio di quello a cui ha appena rinunciato, un viaggio fantastico, un viaggio sull’Isola senza tempo, un luogo magico, immaginario, dove Marcello portava Biagio quando era bambino e aveva appena perso, seienne, la madre Nicoletta.
«Un luogo selvatico, un’isola incontaminata che si trovava a un passo da noi, raggiungibile soltanto se una persona sentiva a un tratto l’assoluto, viscerale bisogno di andare a starci.»
È un viaggio nel tempo e nella memoria, dove l’uno si sovrappone all’altro dimostrando che, in fondo, sono fatti della stessa materia («sono questi i ricordi: qualcosa che nessuno può riprendere in mano», come il tempo, verrebbe da aggiungere) e che non è la materia dei sogni ma la materia della realtà, una realtà che ha tante facce quante sono le percezioni di essa. Guidati da Bonaparte (personaggio, come ha dichiarato l’autore, realmente esistito: un ragazzino di diciassette anni morto in un incidente stradale e che amava vestirsi in stile, appunto, bonapartesco), Biagio e Marcello iniziano l’esplorazione dell’isola, incrociando via via il Viale dei Tronchi Ricordanti sotto il Fiume dei Pazienti, la Radura del Sempiterno Giorno, il Promontorio delle Verità Taciute fino alla Spiaggia dell’Approdo.
Ogni tappa rappresenta l’occasione per raccontarsi, il figlio al padre e il padre al figlio, perché ci sono segreti univoci, biunivoci e segreti che non sono affatto tali. Sono silenzi e basta. Sono parole non dette ma comunque mai superflue. E infatti Biagio quelle parole le ha scritte in una lista, la lista delle Cose che mio padre non sa.
Mio padre non sa chi è veramente suo figlio
Mio padre non sa che suo figlio non sa chi è veramente suo padre
Ma è davvero così? O, comunque, è così importante sapere per amare, che si tratti di genitore, figlio, marito o amante (Andrea)? Gianluca Mercadante accompagna il lettore sull’Isola senza tempo non solo per raccontargli la storia di Biagio e Marcello ma anche per rivelargli che c’è un posto e un tempo in cui ci si può lasciar andare, senza rimpianti e che «l’unico modo di viaggiare nel tempo è viaggiare nella vita».
L’Isola senza tempo è un romanzo avvincente, che sa tenere il passo, il tempo e il ritmo, grazie anche a una serie di paradigmi narrativi tipici, come si diceva in principio, del thriller (colpi di scena, cliffhanger – per dirla come si usa oggi nei corsi di scrittura creativa), per non parlare del finale che stravolge tutte le nostre certezze. Ma una soluzione del genere, in un romanzo del genere, è un’arma a doppio taglio: a seconda di come la si maneggia può diventare un colpo di genio o un colpo di spugna.
Personalmente l’ho trovato un colpo di genio, non per il gusto del rovesciamento fine a sé stesso, ma perché coerente con l’architettura complessiva (narrativa e cognitiva), perché è vero che
«è anomalo analizzare i comportamenti del cervello umano mentre funziona secondo logiche conosciute, figuriamoci un singolo cervello sconquassato da ininterrotti corti circuiti che lo alterano»
e quindi, in una storia che approccia determinati temi, cercare un finale ordinario (lieto o meno lieto che sia) sarebbe più eccentrico del finale che invece incontriamo.
Con una voce del tutto personale, a tratti ironica, a tratti caustica, a tratti nostalgica, comunque sua, verace e genuina, Gianluca Mercadante firma un romanzo dai toni delicati, un po’ fiabeschi e che proprio come le fiabe perforano il tessuto della pagina per consegnare al lettore un messaggio impossibile da ignorare: niente, nella vita, si trova al posto giusto. Bisogna avere coraggio e andarlo a cercare. Magari su un Isola senza tempo.