Il kitesurfing è considerato una variante del surf in cui l’atleta si fa trasportare da un aquilone manovrato attraverso una barra collegata al kite da sottili cavi e che usa il vento come propulsore. Chi ha rubato l’aria al kite di Paolo Morabito (bookAbook editore) è un giallo che sullo sfondo – meraviglioso – del lago di Garda racconta di sport e disciplina, di famiglia, di passione, perversione, e ovviamente di un delitto e di un castigo.
Rita e Matteo sono marito e moglie, hanno due figli e due cani. Lei è una veterinaria, lui un ingegnere, e ormai da qualche anno hanno scelto di trascorrere le estati sulle rive del lago, dalle parti di Salò, dove Rita collabora con una locale clinica veterinaria e Matteo può lavorare tranquillamente da casa. Un giorno trovano Robin, uno dei due cani, in fin di vita, la trasportano d’urgenza in clinica, e mentre Rita è dentro a cercare di stabilizzarla, Matteo scompare dopo un’aggressione a un vigile.
Lo stesso giorno le acque del lago restituiscono un macabro reperto: un piede di donna legato a un pezzo di tavola da kitesurf. A occuparsi delle indagini è il commissario Francesca Rocchi, una donna tenace tanto nel suo lavoro quanto nella sua passione per l’acqua, il vento e il kite. Il raccapricciante ritrovamento la coinvolge non solo come professionista ma anche come sportiva e, se come commissario di Polizia, Francesca può contare su una squadra eterogenea ma compatta e risoluta, come kitesurfer può fare affidamento sull’aiuto del Capitano, ovvero Zeno, il direttore della locale scuola di kitesurf.
A chi appartiene il piede rinvenuto nell’acqua, che fine ha fatto Matteo, sono i misteri con i quali Francesca dovrà cimentarsi in un intreccio di fili che si annodano e si snodano e la cui trama è tessuta proprio dalle acque del lago e dal mistero decennale che celano.

Nonostante una buona caratterizzazione dei personaggi e l’atmosfera sicuramente evocativa del lago di Garda, Chi ha rubato l’aria al kite è un romanzo che non è riuscito a convincermi e conquistarmi fino in fondo. Colpa, forse, di una frenetica sovrapposizione di piani sequenza senza, però, transizione alcuna. A una scrittura molto cinematografica (ricca di dettagli e lessicalmente feconda) si contrappone una struttura erratica che sposta il punto di vista del narratore da un personaggio all’altro senza soluzione di continuità, sicché nella lettura, a ogni cambio di capitolo, il lettore è costretto, come prima cosa, a cercare la prospettiva da cui sta guardando la storia senza potersi mai identificare definitivamente con alcuno e, soprattutto, senza riuscire a mantenere il ritmo, ritmo che è uno degli elementi più archetipici del giallo. Ne consegue che la tenuta narrativa, così come l’organizzazione della trama, perdono qualunque effetto attrattivo.
In realtà è molto apprezzabile il fatto che l’autore si fidi così ciecamente del suo lettore da ritenere che la sua intelligenza non abbia bisogno di particolari accorgimenti per sintonizzarsi sulle diverse voci, tuttavia il genere costituisce già di per sé una sfida alla mente di chi legge – intercettare e mettere insieme tutti gli indizi, provare a ricostruire la storia, una storia che nel poliziesco procede quasi per necessità a ritroso, dalla fine all’inizio – e chiedere di afferrare ogni volta il filo di una narrazione che passa di mano in mano è una sfida fuori portata, o almeno fuori dalla mia portata. Tanto più in un giallo psicologico, come si dà il caso che sia Chi ha rubato l’aria al kite di Paolo Morabito, che implica anche un’attenzione tutta particolare al carattere dei personaggi, alle loro azioni e reazioni.
Ecco, forse bisognerebbe procedere per gradi. Prima di invitare il lettore a salire su una tavola da kite, sarebbe il caso di chiedersi se quel lettore sa nuotare. Ed io, per esempio, devo ammettere (anche se con rammarico) di non saper nuotare.