La strana morte del signor Benson (1926, ristampato da Oscar Mondadori nella nuova veste grafica della collana I gialli) è il primo romanzo in cui appare la figura dell’investigatore Philo Vance di S.S. Van Dyne. Forse qualcuno ricorderà questo nome accostandolo a colui il quale stilò le famose venti regole della detective story, in particolare del cosiddetto whodunnit (giallo deduttivo). Ma Willard Huntington Wright è stato a sua volta un giallista d’eccellenza, raffinato e coltissimo. Appassionato di filosofia, aveva già scritto monografie su Nietzsche, era giornalista e critico d’arte, poeta, brillante intellettuale newyorkese, finché all’età di 35 anni, colto da tubercolosi, fu costretto ad abbandonare il suo lavoro e, col consiglio di dedicarsi a letture più leggere, si avvicinò alla letteratura di genere poliziesco tanto da abbracciarne il mandato narrativo e diventare autore di gialli adottando lo pseudonimo di S.S. Van Dyne, che – espediente particolare e formidabile al tempo stesso – è anche il nome del narratore delle vicende, dei misteri e dei crimini risolti dal ricco, annoiato, aristocratico, e molto altro ancora, Philo Vance.
S.S. Van Dine è di fatto il consulente legale e curatore finanziario dell’immenso patrimonio di Philo Vance. Per il suo amico compra quadri e stampe, arazzi, ceramiche, anfore, cristalli, bronzi, sia europei che orientali e africani, di innumerevoli epoche alle aste nelle varie gallerie. La mattina del 14 giugno, preceduto dal domestico Currie, irrompe in casa il procuratore distrettuale di New York, Markam, di cui Vance è molto amico, con l’annuncio della morte di Alvin Benson, noto agente di cambio. Markham aveva promesso a Vance che, appena ci fosse stato un caso interessante, lo avrebbe reso partecipe delle indagini poliziesche. Ora il caso è arrivato e Philo Vance potrà mostrare al suo amico come è capace di trovare il colpevole basandosi sull’analisi psicologica delle persone coinvolte invece che su prove esclusivamente materiali. Inizia quindi una sorta di braccio di ferro tra i suoi metodi quasi metafisici e quelli della polizia sotto il comando dal sergente Heath. Quello di Benson, d’altra parte, è un classico delitto della camera chiusa; all’arrivo sulla scena del crimine, infatti, trovano il corpo ancora seduto sulla poltrona, in posizione naturale, con un foro di proiettile all’altezza della fronte, proiettile che dopo avergli trapassato la testa si è fermato in un pannello in fondo alla stanza. L’appartamento ha delle inferriate, ancora integre, alle finestre, per cui il suo assassino deve necessariamente essere entrato dalla porta d’ingresso.
Tra una governante reticente, una donna misteriosa, il fratello della vittima, un’auto rimasta parcheggiata per mezz’ora davanti al portone di casa Benson più o meno all’ora del delitto, si dipana un minuetto di accuse e contro accuse, indizi, colpi di scena in cui l’unico a sembrare sempre più a proprio agio e sempre più convinto di aver scoperto la verità è proprio Vance che in una settimana riesce a mettere fine al caso.
Certamente arguto, ma soprattutto snob, Philo Vance incarna tutte, ma proprio tutte le doti del superuomo nietzschiano: intellettuale, raffinato, esteta, attraente, sportivo, aristocratico, forte di una cultura sterminata e trasversale (è esperto di storia, arte, letteratura, lingue classiche e moderne, letteratura, economia, politica, psicologia teorica e sperimentale) a cui fa continuamente ricorso per snocciolare aneddoti e parallelismi. Anche (o soprattutto?) per questo non brilla esattamente per simpatia agli occhi del lettore. Consapevole della sua intelligenza superiore, lo sfoggio che ne fa e il complesso del suo comportamento (che non mostra né le debolezze di uno Sherlock Holmes né l’umanità di un Hercule Poirot, per citare altre due figure storiche di detective dalla mente formidabile), si distingue per l’aperto disprezzo, a dire il vero un po’ urticante, di quella parte del genere umano a lui non affine. Tuttavia, riesce lo stesso a ipnotizzare chi legge, che probabilmente si identifica maggiormente nel sergente Heat, uomo comunque d’iniziativa e personaggio tutt’altro che passivo, ma non può restare indifferente al fascino di un carattere tanto carismatico e forte come quello di Vance.
La prosa di Van Dyne è barocca (anche per dar spazio a tutta la debordante personalità di Philo Vance), sontuosa, ciò che rallenta lievemente il ritmo ma nell’insieme il romanzo è più che gradevole, e per il lettore che si approccia per la prima volta a questo autore risulta comunque affascinante, tanto da voler recuperare anche gli altri romanzi della serie. Non fosse altro per scoprire se e come S.S. Van Dyne è riuscito ad applicare all’interno delle proprie trame le famose 20 regole della perfetta detective novel. Ma, a proposito, quali sono queste famose regole?
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Il lettore deve avere le stesse possibilità del poliziotto di risolvere il mistero. Tutti gli indizi e le tracce debbono essere chiaramente elencati e descritti.
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Non devono essere esercitati sul lettore altri sotterfugi e inganni oltre quelli che legittimamente il criminale mette in opera contro lo stesso investigatore.
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Non ci dev’essere una storia d’amore troppo interessante. Lo scopo è di condurre un criminale davanti alla Giustizia, non due innamorati all’altare.
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Né l’investigatore né alcun altro dei poliziotti ufficiali deve mai risultare colpevole. Questo non è un buon gioco: è come offrire a qualcuno un soldone lucido per un marengo; è una falsa testimonianza.
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Il colpevole dev’essere scoperto attraverso logiche deduzioni: non per caso, o coincidenza, o non motivata confessione. Risolvere un problema criminale a codesto modo è come spedire determinatamente il lettore sopra una falsa traccia per dirgli poi che tenevate nascosto voi in una manica l’oggetto delle ricerche. Un autore che si comporti così è un semplice burlone di cattivo gusto.
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In un romanzo poliziesco ci dev’essere un poliziotto, e un poliziotto non è tale se non indaga e deduce. Il suo compito è quello di riunire gli indizi che possono condurre alla cattura di chi è colpevole del misfatto commesso nel capitolo I. Se il poliziotto non raggiunge il suo scopo attraverso un simile lavorio non ha risolto veramente il problema, come non lo ha risolto lo scolaro che va a copiare nel testo di matematica il risultato finale del problema.
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Ci dev’essere almeno un morto in un romanzo poliziesco e più il morto è morto, meglio è. Nessun delitto minore dell’assassinio è sufficiente. Trecento pagine sono troppe per una colpa minore. Il dispendio di energie del lettore dev’essere remunerato!
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Il problema del delitto deve essere risolto con metodi strettamente naturalistici. Apprendere la verità per mezzo di scritture medianiche, sedute spiritiche, la lettura del pensiero, suggestione e magie, è assolutamente proibito. Un lettore può gareggiare con un poliziotto che ricorre a metodi razionali: se deve competere anche con il mondo degli spiriti e con la metafisica, è battuto ab initio.
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Ci deve essere nel romanzo un poliziotto, un solo “deduttore”, un solo deus ex machina. Mettere in scena tre, quattro, o addirittura una banda di segugi per risolvere il problema significa non soltanto disperdere l’interesse, spezzare il filo della logica, ma anche attribuirsi un antipatico vantaggio sul lettore. Se c’è più di un poliziotto, il lettore non sa più con chi sta gareggiando: sarebbe come farlo partecipare da solo a una corsa contro una staffetta.
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Il colpevole deve essere una persona che ha avuto una parte più o meno importante nella storia, una persona cioè, che sia divenuta familiare al lettore, e lo abbia interessato.
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I servitori non devono essere, in genere, scelti come colpevoli: si prestano a soluzioni troppo facili. Il colpevole deve essere decisamente una persona di fiducia, uno di cui non si dovrebbe mai sospettare.
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Nel romanzo deve esserci un solo colpevole, al di là del numero degli assassinii. Ovviamente che il colpevole può essersi servito di complici, ma la colpa e l’indignazione del lettore devono ricadere su un solo cattivo.
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Società segrete, associazioni a delinquere et similia non trovano posto in un vero romanzo poliziesco. Un delitto interessante è irrimediabilmente sciupato da una colpa collegiale. Certo anche al colpevole deve essere concessa una “chance“: ma accordargli addirittura una società segreta è troppo. Nessun delinquente di classe accetterebbe.
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I metodi del delinquente e i sistemi di indagine devono essere razionali e scientifici. Vanno cioè senz’altro escluse la pseudo-scienza e le astuzie puramente fantastiche, alla maniera di Jules Verne. Quando un autore ricorre a simili metodi può considerarsi evaso, dai limiti del romanzo poliziesco, negli incontrollati domini del romanzo d’avventura.
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La soluzione del problema deve essere sempre evidente, ammesso che vi sia un lettore sufficientemente astuto per vederla subito. Se il lettore, dopo aver raggiunto il capitolo finale e la spiegazione, ripercorre il libro a ritroso, deve constatare che in un certo senso la soluzione stava davanti ai suoi occhi fin dall’inizio, che tutti gli indizi designavano il colpevole e che, se fosse stato acuto come il poliziotto, avrebbe potuto risolvere il mistero da sé, senza leggere il libro sino alla fine. Il che – inutile dirlo – capita spesso al lettore ricco d’istruzione.
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Un romanzo poliziesco non deve contenere descrizioni troppo diffuse, pezzi di bravura letteraria, analisi psicologiche troppo insistenti, presentazioni di “atmosfera”: tutte cose che non hanno vitale importanza in un romanzo di indagine poliziesca. Esse rallentano l’azione, distraggono dallo scopo principale che è: porre un problema, analizzarlo, condurlo a una conclusione positiva. Si capisce che ci deve essere quel tanto di descrizione e di studio di carattere che è necessario per dare verosimiglianza alla narrazione.
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Un delinquente di professione non deve mai essere preso come colpevole in un romanzo poliziesco. I delitti dei banditi riguardano la polizia, non gli scrittori e i brillanti investigatori dilettanti. Un delitto veramente affascinante non può essere commesso che da un personaggio molto pio, o da una zitellona nota per le sue opere di beneficenza.
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Il delitto, in un romanzo poliziesco, non deve mai essere avvenuto per accidente: né deve scoprirsi che si tratta di suicidio. Terminare una odissea di indagini con una soluzione così irrisoria significa truffare bellamente il fiducioso e gentile lettore.
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I delitti nei romanzi polizieschi devono essere provocati da motivi puramente personali. Congiure internazionali ecc. appartengono a un altro genere narrativo. Una storia poliziesca deve riflettere le esperienze quotidiane del lettore, costituisce una valvola di sicurezza delle sue stesse emozioni.
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Ed ecco infine, per concludere degnamente questo “credo”, una serie di espedienti che nessuno scrittore poliziesco che si rispetti vorrà più impiegare; perché già troppo usati e ormai familiari ad ogni amatore di libri polizieschi. Valersene ancora è come confessare inettitudine e mancanza di originalità:
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scoprire il colpevole grazie al confronto di un mozzicone di sigaretta lasciata sul luogo del delitto con le sigarette fumate da uno dei sospettati;
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il trucco della seduta spiritica contraffatta che atterrisca il colpevole e lo induca a tradirsi;
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impronte digitali falsificate;
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alibi creato grazie a un fantoccio;
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cane che non abbaia e quindi rivela il fatto che il colpevole è uno della famiglia;
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il colpevole è un gemello, oppure un parente sosia di una persona sospetta, ma innocente;
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siringhe ipodermiche e bevande soporifere;
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delitto commesso in una stanza chiusa, dopo che la polizia vi ha già fatto il suo ingresso;
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associazioni di parole che rivelano la colpa;
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alfabeti convenzionali che il poliziotto decifra.
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