#Mitici4.0 – Medea

Il mythos (in greco μῦθος) è la narrazione della creazione del mondo che precede la Storia scritta. Tramandate prima oralmente, le storie di dei e dee, eroi ed eroine e altre creature di spessore più o meno divino ma comunque legati a un contesto sacro e rituale, hanno rappresentato per secoli un momento fondamentale dell’esperienza religiosa, volta a soddisfare il bisogno di una spiegazione a fenomeni naturali o fornire risposte a interrogativi cosmici ed esistenziali. Esistono, infatti, tre tipi di mito: i miti cosmogonici (creazione del cosmo), i miti eziologici (spiegazione di fenomeni naturali) e i miti storici o letterari (l’epica).

CENNI STORICI SULLA TRAGEDIA GRECA

La loro diffusione in forma poetica ha permesso che arrivassero fino a noi, ricoprendo un ruolo fondamentale nella genesi di quasi tutti i generi letterari. Com’è il caso della tragedia. Nata intorno al VI secolo a.C come parte dei riti festivi in onore del dio Dioniso, l’origine del termine è ancora avvolta nel mistero, ma secondo le teorie più accreditate si comporrebbe dall’addizione di tràgos “caprone” con oidè “canto” o perché il vincitore della gara otteneva un capro come ricompensa (canto per il capro), oppure perché i coreuti indossavano delle maschere con sembianze caprine (canto dei capri). La tragedia era quindi principalmente una forma di competizione: durante le dionisiache, infatti, i poeti tragici si sfidavano tra loro portando in concorso, in genere, tre tragedie e un dramma satiresco.

Strutturalmente, la tragedia antica segue uno schema abbastanza rigido; inizia generalmente con un prologo (discorso preliminare), che ha la funzione di introdurre il dramma; segue la parodo, che consiste nell’entrata in scena del coro; l’azione scenica vera e propria si dispiega quindi attraverso tre o più episodi intervallati dagli stasimi, intermezzi in cui il coro commenta, illustra o analizza la situazione che si sta sviluppando sulla scena; la tragedia si conclude con l’esodo.

MEDEA

Medea è figlia di Eeta, re della Colchide, e di Idia. Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, al cui ciclo il suo nome è indissolubilmente legato, è indicata come nipote del Sole (Elio) e della maga Circe dalla quale avrebbe ereditato i poteri magici che la contraddistinguono. Indubbiamente, si tratta di uno dei personaggi più famosi, celebrati e controversi della mitologia greca. Il suo nome significa “astuzia, scaltrezza”; non è un caso se la tradizione la descrive come una maga dotata di poteri addirittura divini, discendenti, questi, dal dio Elio.

Quando Giasone arriva nella Colchide insieme agli Argonauti alla ricerca del vello d’oro custodito da un drago feroce per conto di Eeta, lei se ne innamora perdutamente. Pur di aiutarlo a realizzare il suo obiettivo non esita a sacrificare il fratello Apsirto, spargendone i resti dietro di sé dopo essersi imbarcata sulla nave Argo insieme a Giasone, divenuto nel frattempo suo sposo. Il padre, così, rallentato dalla necessità di raccogliere i resti del figlio, non riesce a raggiungere la spedizione, e gli Argonauti tornano a Jolco con il vello d’Oro. Lo zio di Giasone, Pelia, rifiuta tuttavia di concedere il trono al nipote, come aveva promesso in cambio del vello: ricorrendo alle sue doti magiche, allora, Medea convince le figlie di Pelia a somministrare al padre un pharmakón che, dopo averlo smembrato e bollito, avrebbe dovuto però non solo riportarlo in vita ma addirittura ringiovanirlo. In tal modo sono le stesse figlie di Pelia a provocarne la morte tra atroci sofferenze. Acasto, figlio di Pelia, bandisce Medea e Giasone da Iolco, sapendoli ideatori del piano e costringendoli a rifugiarsi a Corinto insieme ai due figli. Dopo alcuni anni però Giasone decide di ripudiare Medea per sposare Glauce, la figlia di Creonte, re di Corinto, ciò che gli darebbe quel diritto di successione al trono che tanto brama.

LA MEDEA DI EURIPIDE

La Medea di Euripide si classificò terza contro Sofocle ed Euforione nelle dionisiache del 431 a.c. La tragedia faceva parte del trittico composto anche dal Filottete e Dyctis insieme al dramma satiresco I mietitori. Nel prologo Medea si lamenta col coro delle donne corinzie in modo disperato e furioso, scagliando maledizioni sulla casa reale, tanto che il re Creonte, sospettando una possibile vendetta, le intima di lasciare subito la città. Occultando abilmente i propri sentimenti, però, Medea chiede di poter restare ancora un giorno, che le servirà per attuare il piano che ha già concepito.

Negli episodi successivi vediamo Medea rinfacciare a Giasone tutta la sua ipocrisia e la mancanza di coraggio, invettive a cui Giasone sa opporre solo banali ragioni di convenienza (la discendenza reale che spera di ottenere e vantaggi per i loro figli). Di fronte all’incostistenza delle argomentazioni del marito, la donna si convince definitivamente ad attuare la sua vendetta, non prima, però, di essersi assicurata dal re di Atene Egeo (di passaggio per Corinto) la promessa di ospitarla nella propria città, offrendo di mettere al suo servizio le proprie arti magiche per dargli un figlio. Fingendosi poi rassegnata, manda i figli (per i quali ha chiesto a Giasone l’intercessione presso Creonte affinché possano restare) dalla nuova sposa del padre con in dono una corona e una veste avvelenata, sicura che la giovane, lungi dall’insospettirsi, accetterà con lusingata gioia. Indossatele, infatti, Glauce muore tra atroci tormenti, bruciata da un rivolo di fuoco che cola dalla corona e scarnificata dalla veste stessa. Stessa sorte tocca a Creonte, accorso per aiutarla. La scena è raccontata da un messaggero. A quel punto Giasone prova a salvare almeno la sua prole, ma Medea, che ha già tracciato anche la sorte dei suoi figli, gli appare sul carro alato del dio Sole, mostrandoli ormai cadaveri Nell’esodo, mentre Medea si dirige verso Atene, Giasone, distrutto dal dolore, la maledice.

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La personalità di Medea domina l’opera, restando in scena per quasi tutto il tempo. Emotiva e passionale, la donna mostra un’ampia gamma di stati d’animo, che culminano negli omicidi della giovane sposa di Giasone e dei propri figli, atti caratterizzati sì da grande ferocia, ma non privi di dubbi e di tentazioni di desistere, talvolta manifestati nell’ambito della stessa scena, in un continuo alternarsi di propositi omicidi e di pentimenti.

Le sfaccettature del personaggio sono insomma tante e tali che Medea può essere vista, di volta in volta, come feroce e vendicativa assassina, vittima di pulsioni intime e incontrollabili, o anche come moglie addolorata per l’abbandono del marito, tanto da perderne la testa. Lo spessore del personaggio sta proprio nella sua complessità, nell’oscillare continuamente tra ragione e sentimento, paura e violenza. È la prima volta che nel teatro greco (almeno per quanto riguarda le opere note) protagonista è la passione di una donna, una passione certamente violenta e feroce che rende Medea una donna debole e forte allo stesso tempo, regina dei contrasti, sopraffatta da una inesausta lotta tra sentimenti diametralmente opposti. Giasone, al contrario, è una figura decisamente sminuita, che spingerà Dante a collocarlo nell’ottavo cerchio dell’Inferno della Divina Commedia, nelle malebolge, tra seduttori, ruffiani e adulatori.

La tragedia propone uno scontro tra culture diverse, una considerata moderna e civile (Corinto), l’altra più barbara e arretrata (la Colchide). Medea è una barbara (come venivano considerati in blocco tutti gli estranei alla civiltà greca), fa uso di magia, è feroce nelle sue passioni, vendicativa. Eppure nelle parole che Euripide le mette in bocca sulla scena scopriamo un protofemminismo non trascurabile e che troverà in Simone de Beauvoir una critica attenta e lucida.

anzitutto [noi donne] dobbiamo versare una robusta dote e prendere un marito che sarà il padrone della nostra persona senza sapere se costui sarà buono o cattivo” lamentando che “separarsi dal marito è una disgrazia, ripudiarlo non si può… L’uomo quando si annoia esce con gli amici e si distrae, mentre noi siamo condannate a vedere una sola persona per tutta la vita” e concludendo amaramente con la celebre invettiva: “[gli uomini] sostengono che, mentre loro rischiano la vita in guerra, noi donne viviamo sicure in casa. Falso! Preferirei combattere tre volte in prima linea piuttosto che partorire una volta!

VARIAZIONI SUL TEMA

Nel corso dei secoli molti autori si sono cimentati con il dramma di Euripide, creandone versioni che differivano più o meno ampiamente dal modello originale, a seconda del momento storico e del luogo in cui erano state scritte. Nella letteratura latina, delle numerose versioni scritte solo una è giunta integra ai nostri giorni, la Medea di Seneca. Anche Ovidio, fra il 12 a.C. e l’8 a.C., ne scrisse una versione coronata da un buon successo, ma essa è andata perduta, così come la Medea di Ennio.

Tra le opere moderne, una versione interessante è quella di Franz Grillparzer (1821), che pone maggiormente l’accento sul fato e sulle circostanze avverse che spingono la donna ad agire; mentre nel 1949 Corrado Alvaro, nella sua Lunga notte di Medea, mette in evidenza la condizione di Medea come di una donna estranea in una comunità chiusa, e di conseguenza aggredita e discriminata. Da ricordare infine la Medea di Jean Anouilh (1946), nonché il romanzo Medea della scrittrice tedesca Christa Wolf, in cui la situazione di Medea a Corinto viene letta come metafora dello spaesamento dei cittadini della Repubblica democratica tedesca dopo la riunificazione. A queste riletture contemporanee va aggiunta la storica Medea pasoliniana – con Maria Callas nel ruolo principale – in cui l’azione scenica viene alternata a silenzi e sguardi carichi di significati oracolari.

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