Quasi in appendice alle nostre Galassie Sommerse, rubrica ormai conclusa e con la quale abbiamo voluto riaccendere, sebbene per pochi minuti, la luce spenta sul talento di una costellazione di scrittrici e pittrici ingiustamente dimenticate, la recensione di oggi è dedicata a Canne al vento, il più famoso romanzo di Grazia Deledda, che a dispetto della vittoria del Premio Nobel per la Letteratura nel 1926 è scrittrice spesso trascurata, se non proprio bistrattata, da manuali e antologie della Letteratura Italiana.
È stato proprio il riconoscimento di un premio tanto importante (con la cui assegnazione si può essere più o meno in (dis)accordo, ma il valore intrinseco e la portata generale del premio non per questo cambiano) ad averci impedito di inserire la Deledda tra le stelle della galassia sommersa: farlo avrebbe implicato che nel nostro paese nemmeno ottenere il più significativo tra i riconoscimenti letterari serve a elevare una donna al rango di Scrittrice (la maiuscola è voluta), a inserirla in un canone refrattario alla femminilità. Se per altri così è stato, noi abbiamo deciso che così non deve essere, almeno per quanto ci riguarda.
Eccoci così a parlare del suo romanzo forse più conosciuto, Canne al vento, pubblicato per la prima volta nel 1913 (in questo caso letto nell’edizione Newton Compton) e che si situa in quel solco troppe volte attraversato e mai colmato che è il segno dell’inesausto oscillare dell’uomo tra fatalismo e rassegnazione. Lo si comprende fin dalle primissime pagine: sullo sfondo di una Sardegna quasi mitizzata, nel villaggio di Galte, vive la nobile famiglia Pintor, di cui sopravvivono, dopo la morte prima della madre e poi del padre, e la fuga sul continente di una delle quattro figlie, Lia, le tre sorelle Pintor: Ruth, Ester e Noemi. Le donne sono ormai quasi esclusivamente impegnate a difendere, dalle mire del cugino Pietro e degli altri usurai del paese, quel poco che resta della loro fortuna quando giunge la notizia che il nipote Giacinto, figlio di Lia, è in procinto di andar a fare loro visita. La notizia, portata da Efix, l’ultimo servo rimasto loro fedele e personaggio forse tra i più forti e meglio caratterizzati, è fonte di turbamento e allo stesso tempo speranza. Mentre esse assistono al declino della loro giovinezza, della casa ormai cadente e del podere appena sufficiente per il loro sostentamento, avvolte da un’aura di malinconia e inquietudine nella quale si stempera il loro orgoglio (solo Noemi può ancora guardare a un probabile per quanto fugace futuro), l’arrivo di Giacinto è preso come un segno del passato che può diventare sogno per l’avvenire. Ma il giovane si dimostra uno scioperato scialacquatore degli ultimi risparmi delle zie, si innamora della serva Grixenda, seduce la più giovane delle zie, beve, gioca d’azzardo, commette ogni sorta di nefandezza, precipitando sempre più in basso il destino della sciagurata famiglia Pintor.
Le pagine del romanzo restano impresse nell’animo del lettore per numerose ragioni: come in un film, la prospettiva cambia continuamente da soggettiva a oggettiva, interno/esterno senza soluzione di continuità. Tutto ci viene narrato – i personaggi e il loro mondo interiore, i sentimenti ambigui di Giacinto, quelli tormentati di Noemi, le sue riflessioni e le fantasie, gli interni della casa, il paesaggio, le feste popolari, le leggende e le credenze – con mirabile precisione, ma anche con pathos e memorabile icasticità.
Il destino appare ineluttabile, come il fruscio del vento che serpeggia indifferente nel canneto:
«Siamo come canne al vento (…), siamo canne e la sorte è il vento
Sì, va bene: ma perché questa sorte?
E il vento, perché? Dio solo lo sa.»
Ecco il fatalismo, la rassegnazione, la domanda vecchia come il mondo: l’uomo è davvero artefice del proprio destino o solo uno strumento, una canna al vento?
Lo stile della Deledda sincretizza lingua italiana e dialetto sardo in una prosa semplice ma con imprevisti quanto incantevoli voli lirici, intarsi di folclore tipicamente sardi che stemperano l’elemento drammatico con la vivacità di un popolo fuori dal comune, pieno di sfaccettature e note di colore.
Emozionante, poetico, magico, Canne al vento di Grazia Deledda è un romanzo di espiazione che dà voce a una storia antica e sempre attualissima.