Un altro candore di Giacomo Verri

L’ultima volta che ci siamo visti con Giacomo Verri è stato al Salone del Libro 2015. Lui presentava Racconti Partigiani (Biblioteca dell’Immagine), il suo secondo lavoro dopo Partigiano Inverno (finalista al Premio Calvino 2011 e pubblicato nel 2012 da Nutrimenti Editore); io collaboravo con Sul Romanzo e l’ultima domanda della nostra chiacchierata/intervista fu:

Prima Partigiano Inverno, ora Racconti partigiani: non teme di essere etichettato come scrittore monotematico?

Assolutamente sì. Ma ho pronto un terzo lavoro che coi partigiani non ha più niente a che fare, o meglio, ci sono degli accenni ma sono molto vaghi. Si tratta di una storia ambientata nel presente, spaziando tra gli anni Sessanta e i giorni nostri, molto meno connotata sul piano geografico e che vede protagonista la generazione successiva alla guerra, che progressivamente si è fatta invischiare, magari suo malgrado, in questo abuso della libertà e della democrazia in senso edonistico. Per cui, spero di togliermi presto di dosso questa etichetta di scrittore partigiano.

In fase di stesura, chiusi l’articolo (la cui versione integrale potete trovare qui) con questa considerazione:

Ma è difficile pensare al futuro quando il presente è ancora caldo, come i Racconti partigiani di Giacomo Verri non smettono di ricordare.

Sono passati quasi cinque anni e con Giacomo Verri ci ritroviamo per il terzo romanzo, Un altro candore (pubblicato sempre per la casa editrice Nutrimenti), un’altra storia che ha per sfondo (o per principio?) la guerra partigiana. Ma non è una contraddizione. Intanto perché in questi anni quel presente ancora caldo è diventato scottante attualità che rischia di trasformarsi in un futuro devastante se non si prova a disinnescare il rigurgito neofascista adesso. E il migliore artificiere di sempre resta la cultura.

Abbiamo ancora bisogno di libri che ci ricordino, e alle nuove generazioni addirittura insegnino, la memoria della resistenza, di un periodo della Storia senza il quale questo paese non esisterebbe. Ecco allora che Un altro candore finisce con l’essere un libro necessario così come sono necessari gli scrittori partigiani.

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Tuttavia, l’etichetta di romanzo sulla resistenza è in questo caso riduttiva. Se c’è una cosa che colpisce il lettore dalla prima all’ultima pagina è la dualità: la storia ha un respiro ampissimo che sotto il profilo temporale copre mezzo secolo, dagli anni Quaranta fino ai Novanta, mentre sotto il profilo tematico la guerra in montagna è solo uno dei fili di un ordito complesso. Il contrappunto di tanta ricchezza è una scrittura geometrica, scorciata, sfrondata da ogni orpello e leziosità, frammentata, e comunque capace di raggiungere la pagina con chiarezza, intonando frasi che si ripercuotono l’una sull’altra spezzando ogni linearità, un fitto gioco di esitazioni, indugi e riprese.

Giave è una cittadina immaginaria del Nord Ovest d’Italia, tra i monti della Valsesia. Nell’inverno del 1944 due giovani uomini – Claudio e Franco ‒ combattono contro l’occupazione nazifascista da una parte e il loro proibito amore dall’altra. Macro e microcosmi. Intarsi. È di questo che è fatta la vita. Insieme a loro una manciata di altri personaggi: Cristina, una spregiudicata staffetta che si concede a tutti, Sebastiano uno spregiudicato bambino. Durante la guerra tutto appare spregiudicato perché tutto appare possibile. Ma quando la guerra finisce, il ritorno all’ordine può essere amaro anche nella vittoria.

«Il mondo cambia.

Non sempre in meglio.

Claudio respirò profondamente, come il mantice di un organo. Il futuro potrebbe essere migliore.

Ci sei stato? Nel futuro, dico.

No.

Lo accarezzò sulla nuca. Vorrai anche tu quella cosa?

Lui allentò l’abbraccio. Quale cosa?

Il titolo di partigiano scritto da qualche parte.

Alzò le spalle. Non so, disse. Non sono stato solo quello. Eppure immaginava che per qualcuno le cose stessero proprio così, che la parola PARTIGIANO rappresentasse l’ostinata epica dei giorni passati, un mito in base al quale avevano sorriso per decenni e si erano perdonati tanti errori. E lui? Avrebbe potuto far scrivere sulla sua tomba la parola OMOSESSUALE?».

È il primo tempo. Perché ognuno «ha avuto un primo tempo dove tutto sembrava possibile». Nel secondo (anche se l’ordine del tempo in un romanzo, come nella vita, è qualcosa di assolutamente arbitrario) una donna è investita da un’auto sulle strisce pedonali. È Donata, la moglie di Claudio, e siamo nel 1992, la tv tiene incollati gli spettatori con Twin Peaks, il Paese è alla vigilia di un terremoto sociale e politico ma ancora non lo sa. Ciò che invece sanno Claudio e Donata è che i ricordi non si possono seppellire senza prima dirgli addio. Così Claudio cerca il numero di Franco e dopo cinquant’anni ripercorrono insieme quegli anni dolenti eppure segnati da un altro candore, il loro amore. Nell’intermezzo ritroviamo Cristina e Sebastiano, traiettorie che si incrociano, si spezzano, si intrecciano ad altri fili, tessono trame fitte e impossibili e poi le smagliano senza pietà.

È senza pietà Un altro candore di Giacomo Verri. Perché la vita, il destino, la Storia sono tutti senza pietà: quale differenza può fare la letteratura? Se è specchio deve riflettere e non distorcere; se è voce deve raccontare e non mentire. Il lettore consapevole lo sa e lo apprezza. Apprezza questa storia partigiana di antieroi; apprezza questa scrittura franta, didascalica, riconoscendo il lavoro certosino dell’autore, lo studio sulle parole e sulla struttura, uno studio senza il quale anche la più bella delle trame steccherebbe. E Un altro candore, invece, è armonia.

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