Una copertina rosa shocking e un’attrice, autrice, scrittrice di grande talento e allo stesso tempo rara e raffinata ironia per raccontare Edith Stein e lo spirito dell’Europa. Ciò che possiamo fare di Lella Costa (Solferino Editore) è un libro breve, agile e scorrevole che avvicina alla figura un po’ mistica di Edith Stein con grande intelligenza, senza la retorica e l’ampollosa magniloquenza stilistica e formale di una ricerca accademica su una donna che sarà pure la Santa Patrona d’Europa (con il nome di Santa Teresa Benedetta della Croce), che avrà pure incontrato la peggiore delle morti ad Auschwitz, ma che è stata soprattutto una donna che ha speso la propria vita in prima linea, dall’università agli ospedali da campo della Prima Guerra Mondiale, e per la quale l’opposizione alle discriminazioni (di ogni origine e tipo), ai populismi e la fede nell’accoglienza e nel coraggio rappresentano esattamente ciò che possiamo fare. Possiamo. Prima persona plurale del presente indicativo del verbo potere. Quindi ciò che noi possiamo fare, ciò che tutti possiamo fare.
Edith Stein nacque nel 1891 a Breslavia (ex Prussia e poi inclusa nei confini polacchi) da genitori ebrei osservanti, «intelligente, anticonformista, introversa, polemica, incline a scavare fino in fondo per dare supporto alle proprie idee». Dodicesima figlia, ma di fatto ottava (solo sette dei suoi fratelli e sorelle erano, infatti, sopravvissuti). Perde il padre appena due anni dopo; se questo distacco – prematuro e forzato – abbia o meno influito sulla formazione del carattere di Edith non è dato di sapere né, come sottolinea ironicamente l’autrice, è il caso di scomodare Freud e le sue teorie (in effetti non è quasi mai il caso). Fatto sta che il piglio determinato e indipendente con cui Edith affronta la vita è un tratto caratteriale che si mostra quasi subito soprattutto in due campi: la religione e lo studio. Nel primo caso, a sedici anni, arriva già a dichiararsi spavaldamente atea; nel secondo – dopo aver abbandonato la scuola all’incirca nello stesso periodo per trasferirsi ad Amburgo da una delle sorelle con l’unico scopo di leggere, per un intero anno, letteratura e filosofia – riesce a superare l’esame di maturità e a iscriversi all’Università di Breslavia, facoltà di Psicologia e Germanistica, unica donna a seguirne i corsi. Presto, tuttavia, abbandonerà anche questa preferendole l’ambiente accademico di Gottinga, dove sarà allieva e sostenitrice di Edmund Husserl, il padre della fenomenologia. Dopo la laurea e il dottorato inizia la sua battaglia affinché anche alle donne venga consentito di insegnare nelle Università, una battaglia (quantomeno per l’epoca) persa in partenza ma che offre già un assaggio dello spirito di eguaglianza che la anima e che ne farà un modello, non solo spirituale, per l’Europa.
Naturalmente, quando si parla di Edith Stein il primo pensiero non può non correre al fatto che ciò che di lei più o meno tutti conosciamo è la conversione al cattolicesimo, la scelta della vita monastica (con la sopraggiunta della clausura). Ma anche la ferma opposizione al nazifascismo sia in quanto ideologia anticristiana che per la persecuzione all’ebraismo, un’opposizione che si materializzò prestissimo (già alcune settimane dopo l’insediamento di Hitler al cancellierato, Edith – ormai Suor Teresa della Croce ‒ scrisse per chiedere a Papa Pio XI di denunciare le prime persecuzioni contro i giudei). E, infine, la morte, nel 1942, all’interno del campo di concentramento di Aushwitz insieme alla sorella Rosa (anche lei convertita) proprio in quanto ebrea. Il paradosso – se di paradosso si può parlare – sta nel fatto che nel caso di Edith Stein (e non solo) si siano alleate due leggi, una razziale e una morale, per cui il giudaismo trasmettendosi per via matriarcale non si cancella con la conversione se la madre resta ebrea.
Questo è un sunto dei dati biografici della protagonista del saggio. In apparenza sembra un viaggio nozionistico all’interno di una vicenda che scantona spesso e volentieri da pubblica a privata, da individuale a universale e con la quale – come già insinua lo stile di Lella Costa – è una strada piena di fermate, di bivi, di scelte che il lettore può fare. Del resto, già stilisticamente, il rapporto tra autrice e protagonista è presentato come un monologo che quando meno te l’aspetti si trasforma in dialogo. Un’interrogazione a se stessi che si trasforma in un colloquio, una forma maieutica che è la base primaria di ogni forma di conoscenza umana.
Ma perché leggere questo libro adesso, al volgere del termine del 2019? «Ha un senso? Potrebbe servire a qualcosa, a qualcuno?»
Può servire perché quella di Edith Stein è una figura modernissima, eclettica, capace di vedere lucidamente una condizione desiderabile ‒ l’eguaglianza e la parità di diritti per tutte le donne ‒ e perseguirne un’altra (la clausura). E soprattutto a tracciare:
«una nuova mappa dell’Europa, lasciando fare alle donne come Edith, che con lei hanno avuto e hanno in comune molto più di quanto si potrebbe pensare. Libertà, innanzitutto. Dedizione, coerenza e senso del ben comune. (…) Saper essere eroiche senza fare le eroine. Spendersi per le donne non perché si è donne, ma perché è giusto (ed è persino un affare, fidatevi). Essere sempre consapevoli che la nostra storia può avere un senso, e un peso, solo se è costantemente in relazione con tutte le altre»
Ecco, al volgere del 2019, leggere Cosa possiamo fare di Edith Stein è la dimostrazione che molti di quegli slogan che ci vedono in prima linea sui social, quando si tratta di passare dal dire al fare, ecco è proprio lì che ci perdiamo, blocchiamo, forse addirittura cambiamo idea.