Ultimamente sono entrata nel loop delle biografie. Al di là di averne comprate più di quante effettivamente possa riuscire a leggerne nel breve termine, ho accumulato nel corso degli anni diverse opere che sono andate ad aumentare le pile e pile di libri da leggere in libreria. Questa Vita breve di Katherine Mansfield di Pietro Citati fa parte di questo lungo elenco: comprato due anni e mezzo fa è stato finalmente letto solo in questi giorni.
Personalmente non conoscevo Pietro Citati, se non per nome e se non per conoscere altre sue opere per titolo, ma questo volumetto dedicato a Katherine Mansfield mi aveva conquistata fin dalla copertina, dove è presente un suo ritratto di Anne Estelle Rice (che purtroppo non rientrerà nella rubrica dedicata alle pittrici, ma chi lo sa). Ho conosciuto la Mansfield al liceo, durante le lezioni di letteratura inglese: grande scrittrice di racconti, di origine neozelandese, fu cugina di un’altra grande scrittrice, Elizabeth Von Arnim.
Quello che colpisce di questa biografia e a cui si fa fatica subito ad abituarsi è lo stile. Pur non dispiacendomi come genere letterario ho letto ben poche biografie nella mia vita e sono stata quasi sempre abituata ad una linearità di fondo: nascita, infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia e morte, inframmezzate dalle spiegazioni letterarie e dall’opera artistico-letteraria. Qui invece ci troviamo di fronte ad uno stile completamente diverso: niente dati biografici o legati all’infanzia, niente linearità e cronologia nel testo. Assistiamo direttamente, come se vedessimo dei mini trailer, ad episodi della sua vita e leggiamo direttamente i suoi pensieri.
Viaggiò per l’Europa, si innamorò e sposò John Middleton Murry, anche lui letterato del tempo, più giovane di lei di quasi un anno. La loro fu per molto tempo una relazione a distanza: d’altronde Katherine contrasse a 29 anni la tubercolosi e passò diversi anni della sua vita a cercare una cura in diverse città e cliniche: dall’Italia alla Francia, da Ospedaletti a Mentone. Viaggiò anche durante il periodo della malattia assieme ad una sua cugina in Francia, dove ebbe modo di non stare rinchiusa in una stanza e di vedere il mondo.
Grande sollievo alla malattia era la sua fantasia: una fervida immaginazione che le permetteva di creare un nuovo mondo, Heron, assieme allo spirito del fratello morto anni prima, dove tutto era possibile e dove cresceva forte la radice della sua creatività. Scrisse, scrisse e scrisse ancora: si chiese spesso se la condizione di persona malata fosse collegata al suo talento. Scrisse e fantasticò su ciò che la circondava all’esterno, intervallando a questi momenti di lavoro pause di silenzio: amò molto il mare
In quel tempo vuoto di racconti, la sua attività più importante sembrava di guardare e di ascoltare il mare: il mare verde a striature azzurre e ombre viola – così chiaro che dalla casa quasi contava le stelle marine sul fondo-: il mare che alla mattina era di un pallido rosa e quasi non respirava: il mare di un azzurro brillante, ma con un riflesso, una pennellatura bianca in distanza, lontana, come l’orizzonte, che la commuoveva.
Pietro Citati regala degli scorci poetici per creare delle immagini che dal cervello passano alla retina: e siamo quindi a Ospedaletti, assieme a Katherine e alla sua fidata amica e quasi serva Ida Baker, siamo con lei immersa nella sua scrittura, siamo con lei quando tossisce e perde sangue: siamo con lei nell’ultima clinica, quando il 9 gennaio del 1923 in seguito ad un forte attacco, viene stesa sul letto e mentre John va a chiamare i dottori, muore.
Tutto era finito. Quella creatura così leggera e delicata, così dura e avida, appassionata e implacabile, quella farfalla maldestra, che aveva provato le sue ali nel vento, quella remota figurina cinese dipinta sul fondo della tazzina, era scomparsa.