La Storia di una Bottega di Amy Levy

La storia di una bottega di Amy Levy (Jo March Editore) è il secondo volume della collana Atlantide della casa editrice che ha riproposto finalmente quel meraviglioso capolavoro che è Nord e Sud di Elizabeth Gaskell, con il fine di far riaffiorare il continente sommerso (Atlantide, appunto) della narrativa femminile tra XVIII e XIX secolo oltre ai nomi immortali di Jane Austen (a cui, sotto il profilo filologico, in quest’opera i riferimenti non mancano), delle sorelle Bronte, George Eliot e poche altre. E, infatti, questo romanzo della Levy, sconosciuto al grande pubblico fino a questa riedizione, fa emergere un lato del percorso di emancipazione femminile che preconizza l’inesorabile e inarrestabile trasformazione della donna alle soglie del XX secolo.

Le sorelle Lorimer sono quattro, sono tutte diverse e hanno appena perso il padre, unica fonte di sostentamento grazie al suo mestiere di fotografo. Gertrude non è bellissima, ha ventitré anni e una personalità più determinata che forte, ma capace, appunto, di fare di necessità virtù. Lucy ha vent’anni, è: «esile, dritta come un fuso, con uno sguardo sveglio e al contempo calmo». Frances è la maggiore, sorellastra per parte di madre; ha all’incirca trent’anni, è robusta, un «viso largo con lineamenti piccoli e insignificanti». Phyllis è la più giovane, è: «alta, graziosa, un’esile creatura di diciassette anni, dall’apparenza delicata, che crescendo aveva perso ogni energia».

Con il lutto arriva anche la povertà. L’unico modo per sfuggire all’indigenza più totale è separarsi, accettare ognuna la carità di qualche parente. Ma forse c’è un altro modo. Restare insieme e rilevare l’attività fotografica del padre, trasferendosi in un piccolo appartamento di Upper Baker Street (che prima di diventare la residenza dell’investigatore più popolare della letteratura mondiale era effettivamente la strada dei primi laboratori fotografici nella Londra della seconda metà del XIX secolo). È appunto quest’ultima strada che scelgono, la più tortuosa, certamente la più impervia, ma l’unica capace di tenerle insieme. L’attività di fotografo non è nota per portare grandi ricchezze – certo non a quei tempi – e se a occuparsene sono quattro giovani donne diventa ancora più difficile sfondare il muro dei pregiudizi e crearsi un seguito sufficiente a permettere a questa famiglia di sole donne di sopravvivere. Potranno contare, questo è sicuro, sull’aiuto e l’incoraggiamento degli amici (i Devonshire), ma dovranno affrontare anche l’opposizione della propria parentela più vicina (Zia Caroline). Soprattutto, dovranno affrontare gli alti e i bassi della vita, fatta di incontri, scontri, amori, tormenti, perdite, ma anche gioie, matrimoni inattesi e insperati.

«Gertrude rimase a lungo sveglia quella notte mentre le sorelle dormivano. Quel piccolo moto ribelle della mattina era andato via e, volgendosi all’anno appena trascorso, provava un po’ di quella soddisfazione che noi tutti proviamo dopo che qualcosa è stato tentato, dopo che qualcosa è stato fatto. Che fosse stara messa a faccia a faccia con il lato più duro della vita, che fossero svanite alcune illusioni, che avesse patito delle sofferenze, non se ne rammaricava. Le sembrava di non aver pagato un prezzo troppo alto per la realtà più vasta della sua esistenza presente.»

La storia di una bottega di Amy Levy propone una serie di stimoli interessanti, lungimiranti non solo sulla di là a venire emancipazione femminile attraverso il lavoro e l’autosostentamento economico fuori dal matrimonio, ma anche di tipo prettamente letterario. La Levy scrive in uno stile colto, raffinato, non disdegnando una prosa ricca ma calibrando perfettamente ricercatezza e genuinità, con riferimenti dotti (tanto a testi letterari quanto alle Sacre Scritture) che non hanno nulla di invadente né appesantiscono il testo. Al contrario, contribuiscono ad armonizzare la narrazione.

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Inoltre, ciascuna delle sorelle emerge come persona prima ancora che come personaggio, mostrando un’accurata indagine sia psicologica che caratteriale che non sacrifica e non mortifica – anzi! – il lato femminile di ciascuna. Piuttosto lo evidenzia, sottolineando nel contempo quanto, allora come oggi, sia difficile essere donna continuando a essere sé stesse, coniugando ideale e materia, spirito e carne.

C’è poi un espediente narratologico a dir poco geniale: il narratore è, senza dubbio, un narratore onnisciente ma non neutro. Pur senza emettere giudizi, trarre morali, suggerire opinioni si palesa al lettore in forma di affabulatore, di voce che non rinuncia, anche se non la rivela, alla propria identità. In questo modo, non solo la lettura ne risulta più coinvolgente ma anche tanto più realistica:

«Quella mattina di aprile di cui scrivo…

Un’ultima riflessione non può non riguardare la traduzione di La storia di una bottega di Amy Levy. La casa editrice Jo March fa della traduzione un vanto, giustamente, potendola descrivere solo come puntuale e sempre rispettosa dell’originale. E proprio in questo senso ho apprezzato moto le note a piè di pagine. Ad alcuni potranno sembrare superflue e distrattive, ma dare per scontato il grado di conoscenza complessiva del lettore non è una lusinga quanto piuttosto un atteggiamento snobistico. In quelle note che spiegano nel dettaglio finanche la topografia della Londra edoardiana c’è tutta l’umiltà delle traduttrici. Oltre a studio, impegno e ricerca.

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