Anche noi l’America di Cristina Henriquez

Scrive Christina Henriquez nell’ introduzione alla nuova edizione di Anche noi l’America (NN Editore):

Quando ho scritto questo libro, volevo scrivere un romanzo non sull’immigrazione, ma sugli immigrati. Volevo presentare ai lettori dei personaggi forse mai incontrati prima e fare in modo che gli ricordassero persone conosciute davvero.

Ecco che l’autrice sottolinea già uno degli elementi centrali della narrazione: lo scambio funzionale tra personaggi e persone. In genere, in narratologia, si tende ad attribuire al personaggio il ruolo di simbolo (eroico o meno) chiudendolo in una cornice caratteriale, relazionale, ambientale, socio-economica, emotiva e sensoriale che si sviluppa nell’arco della storia (il cosiddetto viaggio dell’eroe), oppure motiva le imprese compiute e i risultati raggiunti, ovviamente nella maniera più credibile ed empatica possibile. In Anche noi l’America, l’autrice gioca in contropiede e pur senza tralasciare nessuno degli elementi summenzionati, li capovolge di senso: ogni componente diventa voce, diventa storia, diventa persona. Ogni cosa, insomma, diventa ognuno, slittando semanticamente da complemento oggetto a soggetto. In questo modo il romanzo traduce l’immigrazione da tema, argomento, fenomeno empirico a condizione scientifica, da individuale a collettivo, da personale (le vicende che coinvolgono Maribel e i suoi genitori) a corale.

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Maribel Rivera arriva in Delawere, negli Stati Uniti d’America, dal natio Messico. Ha quindici anni, è bellissima («snella e minuta. Aveva labbra grandi e carnose e il naso lungo e sottile. […] era una meraviglia, punto e basta.»), amatissima, e tuttavia ha bisogno di frequentare una scuola per ragazzi con bisogni di apprendimento speciali, visto che dopo un incidente le sue capacità intellettive hanno subito seri danni, forse irreversibili. I Rivera, però, non si arrendono e fanno di tutto per garantire alla figlia la migliore assistenza possibile che poi significa anche la migliore esistenza possibile. E, infatti, possibile è una delle parole che ritroviamo più di frequente.

Per questo Arturo, il papà di Maribel, trova lavoro presso una coltivazione di funghi, affitta una casa e grazie all’uno e all’altra cosa riesce a ottenere il visto per entrare negli Usa, in regola. In questo senso, il termine immigrato è abbastanza fuorviante perché in effetti i Rivera sono emigranti a tutti gli effetti più che immigrati in senso stretto: non tentano la fortuna del sogno americano, la coltivano con pazienza e fiducia, nonostante gli ostacoli della lingua, dell’accettazione sociale, dell’inserimento, seguono scrupolosamente tutte le regole del gioco.

Come loro sono, più o meno, anche i Toro, che a differenza dei Rivera non arrivano dal Messico ma dal Panamá. E forse non è un caso se è proprio grazie al coetaneo Mayor Toro che Maribel riacquista mano a mano una forma di fiducia in sé stessa, una maggiore apertura verso l’esterno. I Toro e i Rivera sono, a dispetto di tutte le apparenze, due facce della stessa medaglia, e forse è per questo che le loro vite corrono su binari paralleli che quando provano a incontrarsi in realtà si scontrano scatenando la tragedia. E come in ogni tragedia che si rispetti intorno a loro si muove tutto un coro che a turno entra in scena per sottolineare i momenti più topici: sono gli abitanti del piccolo agglomerato condominiale, tutti immigrati ma tutti diversi. Nicaraguensi, venezuelani, portoricani, paraguaiani. Sono tutti portatori di storie, esperienze, ricordi diversi ma sono tutti giunti nel medesimo posto per trovare un’altra possibilità, o – meglio ancora – per rivendicare quel diritto alla felicità stabilito dalla Dichiarazione d’Indipendenza nel 1776: life, liberty and pursuit of happiness. Diritti inalienabili che proprio secondo lo stesso documento appartengono all’intera umanità. E questo è il vero sogno americano.

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Un sogno che sembra sul punto di avverarsi proprio nel periodo in cui Cristina Henriquez ambienta Anche noi l’America: nell’anno dell’elezione del presidente Obama:

«un nero che sembrava diverso da tutti gli altri presidenti degli Stati Uniti e la cui famiglia veniva dall’altra parte del mondo […]. Voleva dire che noi, che pure sembravamo diversi da tutti gli altri presidenti degli Stati Uniti e le nostre famiglie che venivano da paesi lontani, un giorno ce la saremmo cavata meglio e avremmo potuto fare la stessa cosa».

 

Accadeva nel 2008, contemporaneamente alla crisi economica. E le crisi economiche comandano i destini dei popoli più della politica. E Obama non basta più. E loro, gli americani invisibili (non a caso il titolo originale è The Book of Unknown Americans tradotto con un’intuizione geniale del traduttore, Roberto Serrai, rielaborando dei versi di Langston Hughes in: I, too, am American), sono i primi a rimetterci. Il lavoro, il rispetto, la dignità, la vita. Come se fossero la ragione di ogni cosa (lo stesso slittamento semantico di prima ma al contrario: da soggetto a complemento oggetto), del brusco risveglio dal sogno alla realtà, dell’inganno di quella agognata felicità, della perdita della sicurezza e del benessere. E allora:

«C’è uno scontro tra culture. Io cerco di trasformare questo palazzo in un’isola per tutti i profughi lasciati sulla spiaggia. Un porto sicuro. Non permetto a nessuno di mettermi i bastoni tra le ruote. Se qualcuno vuole dirmi di andare a casa, mi limito a guardarlo, sorrido con educazione e gli dico: “Ci sono già”.»

Io lo so, lo sappiamo tutti, che il tema affrontato dalla Henriquez appare oggi di stringente attualità, pure tenendo conto del fatto che la prima edizione di Anche noi l’America è stata pubblicata nel 2016, l’anno del passaggio (a passo di gambero) dall’amministrazione Obama a quella di Trump, il cui proposito per l’edificazione di un muro al confine con il Messico per fermare l’immigrazione clandestina era, peraltro, già nel programma elettorale. Di quello che sta accadendo oggi in Italia è persino superfluo parlare. Che siamo di fronte a nuovo «scontro tra culture», a rigurgiti nazionalisti, alle conseguenze della crisi economica, importa poco o forse tutto. Di fatto, il focus è altrove e leggendo il romanzo a quell’altrove, alla realtà, non si sfugge.

Ma poi, Anche noi l’America di Cristina Henriquez è soprattutto una dolcissima storia d’amore. È un romanzo delicatissimo, come lo stile dell’autrice: soave come il primo fiocco di una nevicata, forte quando diventa tempesta. Emozionante, coinvolgente, appassionante come il legame tra due ragazzi fragili e impotenti ma non per questo vinti, perché la giustizia è l’arma più potente che esista e la giustizia, ci ricorda l’autrice, passa innanzitutto attraverso la compassione.

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