Uscito lo scorso dieci giugno in una seconda edizione riveduta e ampliata dalle splendide illustrazioni della stessa autrice (appassionata fotografa) e dalle poesie di Fiammetta Gjoja, Ape bianca di Valentina Villani (Adiaphora Edizioni), psicoterapeuta romana, è un testo che incrocia il memoir e l’auto fiction per raccontare uno dei momenti più dolorosi di ogni percorso esistenziale: la perdita, precoce, di un genitore, perché se è pur vero che è nell’ordine naturale delle cose che le nostre madri e i nostri padri debbano lasciarci prima di noi, la verità è che un figlio non sarà mai pronto a sentirsi orfano – avesse pure cent’anni –.
Da un lato è una questione puramente fisiologica: essere figlio è parte di un’identità fisiologica che non ci abbandona mai e ogni distacco è anche distacco da se stessi e, di conseguenza, necessità di rimodellarci secondo un’altra soggettività; dall’altra la perdita anticipata, prematura e acerba, di una persona amata lascia una messe di nodi irrisolti, parole non dette, sentimenti inespressi, esperienze mai condivise che resteranno come un mietitura seminata e mai raccolta, che finirà, marcia e putrescente, per avvizzire dentro di noi. Macerie, insomma.
Valentina Villani ha perso la madre (Fiammetta Gjoja, appunto) a causa di un cancro: il loro rapporto è sempre stato faticoso, complesso, pieno di lati oscuri e angoli bui, insondabili. Ciò non toglie che il legame trovi dei nodi inestricabili nella comune passione per la fotografia, la pittura e la poesia (quelle immagini e quei versi che scorrono attraverso il flusso della narrazione), voci altre che sostituiscono la parola ma non l’emozione, il dialogo e rappresentano l’aspetto più raffinato e inestimabile del volume. Semplicemente lo raccontano, lo rivestono, in altro modo, diventando un discorso che nemmeno la morte può abrogare, ma che anzi diventa la sceneggiatura di un’auto analisi, un’evocazione accorata e tormentata non solo per trattenere i ricordi (l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza, tutti quei momenti che diamo per scontati ma che poi diventano preziosi e insostituibili) ma anche e soprattutto per ricostruire un sé orfano e allo stesso genitore. Perché per Valentina le due cose coincidono: la perdita della madre e la nascita del primo figlio.

Il testo celebra la difficoltà di questa rinascita dal lutto tappa dopo tappa, in rewind o fast forward, ma con un tempo, comunque, che è sempre incoincidente e fuori asse, «senza senso», «svuotato e paralizzato», un tempo intimo, introspettivo, all’interno del quale il lettore è chiamato a entrare in punta di piedi, senza far rumore, partecipe silenzioso più che spettatore di un’esperienza si apre appositamente per accoglierlo, come un confidente al quale raccontare, sfogarsi, cercare conforto e consolazione per non «dialogare soltanto con le ombre»
«Ape bianca, ti chiamavo. Non so perché quel nome. Forse per la natura conflittuale delle attitudini di un’ape: il pungiglione che inietta veleno e il dolce prodotto del suo lavoro. Il nostro non equilibrio si reggeva proprio su contrasti, tra diffidenze e affinità, rivalità e complicità, noncuranza e ricerca di approvazione. Pungiglione e miele. Ape bianca, che in seguito ho ritrovato con sorpresa in una poesia del tuo amato Pablo Neruda.»
Con una prosa fluida, introflessa nelle emozioni che si sforza di raccontare, elusiva, icastica e immaginifica come i fotogrammi che fermano le parole per trasmutarle in versi, Ape Bianca di Valentina Villani è un memoir breve ma intenso, una riedificazione a tratti violenta a tratti dolente, una rifioritura, quasi una resurrezione fisica e materiale, mentale e spirituale, una riflessione sul senso dell’indelebilità di una vita precocemente spezzata che sta a chi resta non trasformare in vuoto assoluto e tirannico oblio.