Raccontare gli expat oggi. Raccontare le loro vite senza retorica ma non per questo rinunciare a un viaggio introspettivo ed emotivo: questo è Il piano inclinato di Matteo Di Pascale (Las Vegas Editore). Raccontare il bilico, l’asse non perfettamente allineato, per cui basta un niente perché la biglia faticosamente mantenuta in equilibrio rotoli giù senza freni e senza possibilità di tornare alla posizione di partenza: dove finirà, cosa colpirà, quali conseguenze provocherà non è dato di sapere, arriveranno e ci si pareranno di fronte con una possibilità solo apparente di poter scegliere. Pensare che un percorso arbitrario possa anche solo accidentalmente accordarsi con il nostro libero arbitrio è pura follia.
È un po’ folle anche la vita di Francesco, giovane copywriter che ha trovato ad Amsterdam possibilità di carriera inimmaginabili in patria, come molti altri suoi coetanei prima e dopo di lui, come quasi tutti i suoi colleghi di agenzia: sono greci, americani, spagnoli, tutti inseguono qualcosa che non è né completamente materiale né puramente sentimentale, astratto, intellettuale o speculativo. In verità non manca nessuno di questi aspetti, e forse è proprio questo a dare al romanzo un’atmosfera particolare, a farne un caleidoscopio, un prisma, uno specchio rotto nei cui frammenti è possibile trovare il riflesso di qualcosa che appartiene anche a noi.
È spericolata la vita di Francesco, un po’ come la canzone di Vasco Rossi, di quelle che non dormi mai, di quelle che ti trovi, alla fine della giornata, a sballarti in qualche bar ubriaco e fatto a livelli variabili, e poi ti ritrovi a letto con Nicky, Julia, Nienke, alternativamente o nella stessa giornata: non è promiscuità, è semplicemente Amsterdam che si concede senza remore e pudori in un eccesso sfrenato di vita, un moto centrifugo e vorticoso che risucchia e poi ributta fuori per ricominciare tutto daccapo. Hanno fame di tutto: «di vita, di soldi e non sanno come saziarsi». Gli expat di Matteo di Pascale sono un po’ come i bambini perduti di Peter Pan di cui sembra – a tratti – la versione 4.0. Sgombrando il campo dalle rivisitazioni edulcorate della Disney, il romanzo di James Matthew Berry è, di fatto, una storia profondamente amara, cupa, zeppa di tabù svelati e cliché smascherati. Proprio come quiesto romanzo, Il cui fine ultimo è il senso dell’impossibile, di un abbandono che non si può colmare. Perché fa comodo pensare, come in una favola, che l’eroe non voglia crescere per non perdere l’innocenza. La verità è che questi ragazzi non crescono perché non ne hanno motivo. Forse, a differenza dei loro corrispettivi nel romanzo di Barry, hanno una casa e una famiglia. Ma non hanno prospettive né radici. E l’innocenza, forse, non l’hanno mai veramente conosciuta.
«[…]Non mi piace come vive questa gente. Gli expat sono di passaggio e vengono qui a divertirsi, e gli olandesi… lasciamo perdere gli olandesi! Chiaro che poi ci pensi e dici: vabbè, a questo punto anch’io sto qui solo a divertirmi and whatever. Ma non è vero, ti consuma dentro, in qualche modo. Questi non sono uomini. Sono ragazzini che si ubriacano e si fanno di qualsiasi roba. Dei mocciosi, ecco cosa sono. Con quei cappellini del cazzo che si ficcano in testa credendosi belli. E io c’ho trentatré anni, dovrei essere già padre […] invece sto qui anch’io a fare il ragazzino».
Francesco si ritrova, proprio come un inatteso Peter Pan, a giocare il ruolo del centro propulsore del microcosmo di vite che gli ruotano attorno, di Christos, il migliore amico greco, Giorgio, un altro expat italiano come lui, Wally, Joost, Claudio, Rossella, ragazzini che cercano di tornare a casa ma non sanno più come fare, forse perché a casa non c’è nessuno ad aspettarli; personaggi che, pur nel loro essere abbozzati, definiscono chiaramente le proprie identità, che gli forniscono o a cui è lui a fornire le spinte decisive. Ma la più decisiva di tutte è Nina (la sintesi imperfetta di Wendy e Campanellino), la stagista spagnola di cui si innamora e, soprattutto, la stessa Amsterdam (a questo punto una novella isola che non c’è), una città e un personaggio che sono l’una il riverbero involontario dell’altra, sensuali e vulnerabili, fredde, spregiudicate eppure tenere.
E se l’amore è il motore che fa girare il mondo, l’amore verso Nina lo fa sentire sempre più respinto da Amsterdam, mentre cresce la nostalgia per Milano e riemergono le ragioni per le quali aveva deciso di lasciarla cinque anni prima. La biglia che scivola dal piano inclinato rompe ogni schema e Francesco è chiamato a restituire una forma, un equilibrio, a raddrizzare il piano della sua esistenza. Ma è davvero possibile?
Con una prosa snella, essenziale, affrancata da ogni artificio superfluo, dove persino l’intreccio tra inglese e italiano è sintomo di un realismo linguistico estremamente maturo, Il piano inclinato di Matteo di Pascale è un romanzo che trasmette sensazioni diverse ma tutte accomunate dalla reciprocità tra libro e lettore: seppure non si è in grado di condividerne l’esperienza (come nel caso di chi scrive), non è nemmeno possibile restare spettatore impassibile e distaccato. Ma più che il giudizio è la riflessione che prevale: quella su una generazione (quella dei cosiddetti eterni Peter Pan?) costretta a cercare nei modi più disparati una strada che, in salita o in discesa, è pur sempre inclinata e obbliga a passi funambolici per mantenersi in piedi e non sprofondare. Anche se «ogni tanto è bello cadere».