Nel nome di Alessandro Zaccuri

Filologia: dal greco philología; nome proprio: “amore della parola”.

E cosa sono le parole se non i nomi che diamo alle cose? «Ciò che noi chiamiamo rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo. Forse che quella che chiamiamo rosa cesserebbe d’avere il suo profumo se la chiamassimo con altro nome?» dice Giulietta nell’atto II, scena II della tragedia shakespeariana per eccellenza (The Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet), Romeo e Giulietta. Pur tuttavia, non basta rinnegare un nome per evitare l’epilogo fatale: anche con un altro nome Giulietta resta una Capuleti e Romeo un Montecchi. Allo stesso modo non basta tacere un nome per allontanare il dolore per una madre precocemente morta. La morte può assegnare un nuovo significato, una nuova percezione alle parole, ai nomi. «Maria era il secondo nome di mia madre Anna che nessuno ha mai chiamato Annamaria», ci dice Alessandro Zaccuri autore di Nel Nome (NNEditore, collana CroceVia). E questo è il nome che conta.

«Un nome, perché è sempre un nome che si cerca. E un volto che gli corrisponda».

Il nome è quello di Maria che per l’autore è nome segreto spesso omesso o compromesso con altri nomi:

«L’Addolorata si trasforma in Dolores, che può essere sminuzzato in Lolita; la Madonna del Carmelo diventa Carmela, si traduce in Carmen e all’occorrenza si camuffa in Lella e ancora, ancora».

 Come Maria Rosaria che sopprimendo Maria ed elidendo Rosaria diventa il Sara di chi vi scrive. Come le tre Marie dei Vangeli (ma in effetti sono di più) – Maria di Nazareth, Maria di Magdala, Maria di Cleopa, i loro nomi e i loro ruoli, le azioni, sono spesso confuse, anonime e intrise di tradizioni che si accavallano senza logica e soluzione di continuità, ritornano nelle figurazioni pittoriche medievali, da Giotto a Lippo e oltre, fino a Le Courbousier delle vetrate di Notre Dame du Haut, nelle leggende, nelle narrazioni patristiche o apocrife, fino alla Maria di West Side Story, incrociando Borges, Melville e Conrad. Ma non importa. Importa solo che Maria sia nome storico, non spirituale ma storico, il nome che storicamente attribuiamo alla Madre di tutte le Madri. Maria è nome di Madre.

E poco importa se Anna, la madre dell’autore, abbia soffocato quel Maria che si portava dietro, che si portava dentro: come la Maria del Vangelo di Luca, la Madre reca in sé una spada che le trafiggerà l’anima. Ma questa volta a essere crocefissa dalla leucemia è la stessa madre dell’autore, spentasi nel 1983 dopo sette mesi di agonia.

Cattura

Maria. Madre. Nel nome della madre, Alessandro Zaccuri intraprende questo viaggio tra erudizione, autobiografia e devozione. Aggiungerei: memoria. Basta un nome, è la scintilla riaccende e ravviva il ricordo, segnando la strada come il filo di una novella Arianna. Un filo che – non è un caso – ha la stessa radice etimologica di filologia: filo è primo elemento dei nomi composti modernamente formatisi col significato di predilezione, simpatia, culto, premesso in questo caso a logos – parola.

«Filologia è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia da orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo è oggi più necessaria che mai; è proprio per questo che essa ci attira e ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un’epoca del “lavoro”: intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol “sbrigare” immediatamente ogni cosa (…). Per una tale arte non è tanto facile sbrigare qualsiasi cosa perché essa ci insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini, lasciando porte aperte, con dita e con occhi delicati.» diceva Friedrich Nietzsche in introduzione ad Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali.

Leggere bene. Leggere in profondità: ecco cosa richiede al lettore questo testo. Che è filologia della parola. E senza questa consapevolezza Nel nome di Alessandro Zaccuri rischia di essere frainteso o considerato un libro per pochi, esegeti, eruditi, eletti, dotti, sapienti, letterati. Un labirinto di rimandi tra soggetto e oggetto ché l’uno non esiste senza l’altro. È il soggetto, ci insegna Zaccuri, a dare significato all’oggetto attraverso la parola, il nome; come in linguistica, il significante avvera il significato, la langue serve la parole.

È un piccolo gioiello, delicato, disarmante – certo – ma anche duro nell’usare la parola per squarciare il velo del tempo e rievocare con crudezza la malattia della madre, gli episodi, seppur minimi, del calvario che la famiglia dell’autore ha percorso tra l’estate del 1982 e l’inverno del 1983. Ma nemmeno questo è un caso: è, anzi, l’empatia che scatena ispirazione e immedesimazione, anzi immersione: en-pátheia, stare dentro la sofferenza, ciò che genera comprensione, ma anche apertura e disponibilità di fronte a «una sconosciuta», a una «senza nome», una non riconosciuta vittima di una non nominata affezione patologica, un demone, anzi sette. Rabbia, vergogna, oblio, distanza, sfinimento, paura, solitudine. Chi non è abituato a dare un nome alle cose, a cercare le parole, a pesarle, pensarle, pronunciarle, non potrà mai comprendere persone o situazioni, proverà invece fastidio. Quello che forse proverà davanti a questo libro. Al contrario chi vive la o nella malattia, per esempio, ha un bisogno spasmodico, a tratti feroce, di dare un nome alle cose, un nome esatto, un nome vivo perché l’assenza di un nome è già morte, è già oblio. Conosco questa strada, conosco questa urgenza: condanna e consolazione convivono nello stesso nome.

Non è un libro semplice questo Nel nome di Alessandro Zaccuri, ma è un libro bello. Bello per la parola che ha scelto di elevare a nome proprio dell’amore. Bello per la dolcezza che sa esprimere scegliendo le parole giuste per esprimere la sofferenza. Bello perché ci ricorda che scrivere (o leggere) non è un mero agglomerato più o meno corretto di termini e frasi buttati a caso sulla pagina. Bello perché ci riporta al vero seme da cui tutti (e tutto) siamo nati: il nome.

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