Canta, Spirito, Canta di Jesmyn Ward

Dopo Salvare le ossa, Jesmyn Ward torna con il secondo capitolo della trilogia di Bois Sauvage, anch’esso, come il primo, vincitore del National Book Award (tra l’altro la Word è l’unica scrittrice donna ad essersene aggiudicati due tra il 2011 e il 2018). Canta, spirito, canta (NNEditore), un libro incredibilmente potente che impiega tutti i tipi di archetipi narrativi per raccontare il viaggio di una famiglia tra droghe, sudore e vomito, fantasmi, spiriti e magia, in una suggestiva interazione tra dolore, amore e perdita. C’è molta brutalità in questo libro. E c’è il razzismo. C’è l’America di ieri e di oggi. Canta, spirito, canta è sotto molti aspetti un romanzo tipicamente americano: contemplativo e realistico, lirico e brutale, materialista e visionario, puro e traviato.

Leggere questo libro è un’esperienza viscerale, quasi un dolore fisico: ci sono momenti in cui i genitori picchiano i bambini, le droghe entrano prepotentemente nel sangue, nell’immaginazione, nello spirito dei personaggi e altre in cui l’amore assume la più feroce delle forme. Un continuo contrasto, un doloroso chiaroscuro che rende questo romanzo ancora più speciale. Fin dalle prime pagine Jesmyn Ward catapulta il lettore in una contingenza unica, tra gli alberi di noci pecan e le strade polverose del Mississippi rurale e, attraverso una trama a strati intrecciati, combina elementi mistici con una visione ferina delle tensioni razziali nel moderno sud degli Stati Uniti, un’acuta osservazione di fenomeni che non cessano mai di essere attuali.

Jojo ha tredici anni ed è di razza mista, ha una sorellina più piccola di nome Kayla (diminutivo di Michaela), una madre di colore, Leonie, incapace di esprimere il suo amore ma non di amare, e un padre bianco, Michael, che sta per uscire di prigione. Vive con Mam e Pop, i nonni materni. Mam sta morendo di cancro quando Jojo si mette in viaggio. Un viaggio a doppio binario, materiale e immateriale insieme, un viaggio che include malattie inaspettate, sparatorie, linciaggi, boschi oscuri e uno spietato campo di prigionia bruciato dal sole, soste per acquistare o vendere questa o quella droga. Un viaggio ricco di avvenimenti, situazioni, momenti; un viaggio le cui fermate sono altrettante stazioni di dolore come le fermate di Cristo sulla via del Calvario. Ad accompagnarlo non sono solo sua madre e sua sorella ma un’intera folla di personaggi, soprattutto spiriti (gli unburied del titolo originale: letteralmente i non sepolti), gli unici capaci di indicare la via, una via che passa dal penitenziario, da Micheal, dal ricongiungimento di questa famiglia, solo per arrivare a una meta ancora più tortuosa.

Cattura

La Ward distribuisce la prospettiva tra tre personaggi, spostando continuamente l’oggetto e il soggetto della narrazione: Jojo, appunto, ragazzino ribelle per necessità; Leonie, che lotta con la tossicodipendenza e vede le ombre del fratello Given; Richie, un ragazzo che morì decenni prima, quando l’allora quindicenne Pop era a Parchman Farm, il penitenziario di stato del Mississippi, e che solo Jojo può vedere e sentire. Proprio sulle visioni di persone morte, sui racconti di serpenti che si trasformano in “uccelli squamosi” le cui piume permettono ai destinatari di volare, l’autrice intreccia abilmente, con poche, scarne, maledette e precise parole, elementi realistici e soprannaturali in una esposizione potente e poetica. Ci sono fantasmi, case che diventano strade e viceversa, giovani arrabbiati, anziani che parlano il creolo e praticano il vodù, curano con le erbe ma non possono estirpare il male più profondo e radicato perché è la rappresentazione di un fallimento più grande: il fallimento del sogno americano, il fallimento della memoria, il fallimento della lingua e per questo diventa fallimento di tutto, dei rapporti interpersonali, interraziali, inter-spirituali.

Come si affronta quello che non si può esprimere a parole perché tutte le parole che abbiamo trovato e provato nel corso degli anni, nel corso dei secoli, ha mostrato infine la sua fragilità, la debolezza, l’impotenza, a dare un senso e un significato alla sua missione? Ecco, allora, che la lingua di Leonie è alterata dalle droghe, quella di Jojo è alterata dalla rabbia, Kayla può appellarsi solo alla sua lingua bambina, alterata dall’in-coscienza. E nessuna delle loro parole può superare l’ambiguità, la scarnificazione, il fallimento, appunto.

Gli spiriti, invece, cantano e attraverso di loro si libra la sola lingua ancora capace di ricordare e raccontare, riportare l’ordine nel caos del mondo tangibile. Ordine, non pace. Il finale è salvifico solo per gli spiriti, i non sepolti, che trovano finalmente una tregua. Per i vivi resta il limbo, la porta socchiusa tra due mondi, l’incomunicabilità e il dolore.

«Succede quando uno muore male, di morte violenta. Gli anziani mi dicevano sempre che quando uno muore in un brutto modo, talvolta è così orribile che nemmeno Dio ce la fa a guardare, e allora lo spirito rimane per metà sulla terra e vaga alla ricerca di pace, come un assetato desidera l’acqua».

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