La fine dell’estate, romanzo d’esordio di Serena Patrignanelli (menzione d’onore al Premio Calvino 2017) e ora il libreria grazie a NNEditore, è – come recita la quarta di copertina – un libro per chi: «ha paura delle notti buie e senza sogni, per chi colleziona oggetti, cartoline e fotografie di persone sconosciute, per chi adora la crostata di visciole con la crema accanto, e per chi ha preso una decisione importante senza rendersene conto e ora, da una torre di vedetta nel futuro, riesce a provare compassione per quel passato vissuto distrattamente». Di più: è un romanzo epico, lirico, eppure ruvido, schietto. In una parola, è un romanzo neorealista.
Ci ho pensato molto prima di decidermi a scrivere questo semplice aggettivo (due anni passati a fare ricerche e distillare concetti e teorie per scrivere la mia tesi di laurea sull’argomento sono serviti a insegnarmi, almeno, quanto accidentata, ambigua, infida sia questa definizione applicata alla letteratura), e tuttavia tradirei me stessa se non vi confessassi, qui, ora, che mentre leggevo ho continuamente pensato che La fine dell’estate sia tutto ciò che, tra il secondo dopoguerra e la prima metà degli anni cinquanta, una parte della critica letteraria italiana chiedeva a un romanzo di essere ma non riuscì mai, lasciando che fosse il cinema, invece, a dar voce a quell’esigenza: essere, cioè, una parabola formatasi all’intersezione tra spirito e materia, favola e realtà, priva di calligrafismi, narrativa viscerale, potente, concreta ma anche evocativa, in cui l’artificio stilistico, se c’è, forma un tutt’uno tra Storia e storia, universale e particolare, un tutt’uno creato da tutti quegli uomini, donne, e soprattutto, bambini di cui non sappiamo niente se non che hanno vissuto senza lasciare traccia di sé. Bambini sono i protagonisti del romanzo della Patrignanelli, perché solo il loro sguardo disincantato riflette la speranza, il riscatto, il desiderio di lasciarsi il passato alle spalle e cominciare una nuova vita. Solo le loro parole, i loro gesti, sanno esprimere tutta la frustrazione, la povertà, la disperazione che la narrazione vuole trasmettere.
«Da vicino le persone erano molto diverse dai ritratti approssimativi che potevi ricavare dagli avvertimenti. Da vicino le persone erano una somma vertiginosa di dettagli che si annidavano nel cervello, ti torturavano finché pregavi solo che qualcuno ti venisse a salvare»
Il fatto che La fine dell’estate si sbarazzi delle coordinate spazio-temporali senza che queste influiscano minimamente sull’intellegibilità della storia è di per sé un indizio eloquente: si intuisce vagamente che siamo nel mezzo di una guerra (la Seconda Guerra Mondiale?), in centro Italia (nel Lazio?), ma questo non ostacola la lettura. In fondo, ai bambini non interessa il dove e il quando storico se il loro hic et nunc è fatto di bombardamenti, ferrotranviarie chiuse, padri arruolati, case abbandonate. A loro interessa solo trovare un modo per far partire una macchina, e se la benzina scarseggia allora val la pena imparare a costruire un motore a gasogeno, tanto l’importante è partire, lasciarsi indietro il Quartiere, le faide con gli altri ragazzini e quelle tra adulti che non possono capire. È questo il sogno ricorrente di Pietro e Augusto e per realizzarlo non esitano a venire a patti con Sorchelettrica, una delle bucione delle baracche limitrofe e con il suo magnaccia, Ottavio, sempre tentando di mantenere il segreto. Ma che cos’è un segreto?
«Per i segreti ci vogliono almeno due persone che si mettono d’accordo e giurano di non raccontarlo mai»
E di segreti il Quartiere ne nasconde tanti: quello del rapporto tra Mario e sua figlia Virginia; quello che Semiramide riesce a sotterrare persino alla vista di sua sorella Clementina; quello di Michele e delle mutandine firmate con una M indecifrabile. Sovrasta su tutti il segreto di Samuele, un soldato bianco come il gesso trovato morto vicino alla marrana.
«Dovevano esserci molti segreti nella vita quotidiana di cui, chissà perché, nessuno vuole parlare»
È un romanzo corale, questo della Patrignanelli, tra cui le voci di Pietro e Augusto spiccano talvolta soliste ma per lo più dirigono un’armonia di suoni e rumori che interrompono la quieta morbidezza e l’immobilità dell’estate, mentre le scene – come in un film – ricostruiscono, fotogramma per fotogramma, la vita di gente normale, impegnata in normali attività quotidiane, completamente priva della consapevolezza dell’enormità della catastrofe a cui stanno assistendo e che li inghiotte a poco a poco come uno di quegli ultimi tombini rimasti dissigillati, là dove anche l’amicizia di Pietro e Augusto era cominciata.
Anche il lettore viene inghiottito da un incipit ipnotico, un ritmo febbrile, urgente, una lingua in cui l’innesto del dialetto rappresenta un momento indispensabile di formazione così come, sul piano dello stile, l’impegno dell’autrice a favore della riconquista di un punto di vista narrativo capace di descrivere non solo un ambiente o uno stato d’animo dà vita a personaggi ricchi e complessi che davvero assomigliano ai sciuscià di De Sica e ai diseredati di Rossellini e il sogno della macchina a gasogeno assomiglia a quello di comprare un cavallo bianco accarezzato dai lustrascarpe del regista ciociaro.
La fine dell’estate è un libro aspro ed eloquente come un documentario, pregno di una profonda sensibilità per i casi più tragici della realtà umana e sociale guardata con occhio implacabile, così come il neorealismo avrebbe voluto fosse narrato quel periodo della vita italiana.