Marchesa Colombi è lo pseudonimo di Maria Antonietta Torriani (Novara, 1 gennaio 1840 – Milano, 24 marzo 1920), una delle tante scrittrici italiane donne che hanno illuminato la letteratura italiana a cavallo tra la metà del XIX secolo e i primi decenni del XX e inopinatamente obliterate dalla lista del canone letterario del nostro paese (Antonia Arslan, nel suo saggio Dame, Galline e Regine – la scrittura femminile italiana tra ‘800 e ‘900, le ha definite «una galassia sommersa»). Trascurate, dimenticate, relegate a narratrici di terza classe, scribacchine per cameriere e casalinghe incolte, o cultori della scrittura femminile, per non dire femminista (che non sono sinonimi, attenzione), coprono, tuttavia, lo spazio che in altri paesi europei è stato occupato dal grande romanzo borghese, affrontando temi solo apparentemente popolari, ma di fatto qualitativamente rilevanti sia sotto il profilo sociale (basti pensare a un altro suo romanzo, In risaia, che affronta, in pieno clima neorealistico, il tema della condizione delle mondine suscitando un acceso dibattito parlamentare nel fu 1878, anticipando di oltre cinquant’anni quello che sarà poi il centro della riflessione del celebre film di Giuseppe De Santis, Riso amaro – 1949 -, candidato all’Oscar) che antropologico, restituendo forse, al pari o più dei Verga e dei D’Annunzio, la reale fotografia dell’Italia di quei tempi.
Per quanto mi riguarda, ho incrociato il nome di Marchesa Colombi e il suo Matrimonio in provincia (Einaudi Editori) nei miei studi su Calvino, che fu fra i pochi a riconoscere il valore di questa metà oscura (o oscurata?) del panorama narrativo italiano, inserendo questo breve romanzo nella Collana Cento Pagine da lui diretta per Einaudi negli anni Settanta. E me ne sono innamorata perdutamente, perché come afferma Natalia Ginzuburg in prefazione «i personaggi e i fatti sono presentati senza colorarli di rosa né sollevarli in una sfera nobile; un mondo ruvido, allegro e sbadato (…) fatto di persone molto simili a quelle di casa mia».
La protagonista di Un matrimonio in provincia è Denza (diminutivo di Gaudenzia), figlia di un notaio della piccola borghesia novarese, rimasta presto orfana di madre insieme alla sorella Titina. All’inizio la sua istruzione è affidata al padre, che è solito «raccontare i classici» alle figlie ogni sera, fino a quando le di lui seconde nozze non interrompono «l’educazione letteraria»:
«Sì, va bene ma possono anche farne a meno. Io non so neppure cosa siano i classici, ed ho trovato marito lo stesso. Un po’ tardi, soggiunse la matrigna con la franchezza imperturbabile che faceva passare la voglia di burlarla, ma insomma l’ho trovato. Dunque, a correre tutto il giorno non s’impara nulla. Di “leggere, scrivere e far di conto” ne sanno a sufficienza; le ragazze non devono diventare dottoresse. Ora è tempo che imparino a tenere in ordine la casa, a cucire, a stirare, a cucinare, a essere buone massaie. Parole d’oro a cui nessuno trovò nulla da ridire»
La vita scorre così, piatta e monotona, stretta come i vestiti che Denza è costretta a indossare suo malgrado, tra la cura della casa e quella del nuovo fratellino, “l’erede” maschio, ma intanto si fa una giovane attraente, che – si suppone – non faticherà a trovar marito ed evadere da quella provincia soffocante e fintamente perbenista. E infatti a metterle per primo gli occhi addosso sarà il facoltoso Mazzucchetti, spalancando le porte di un bel cielo d’amore. Solo che, nonostante si concluda con un matrimonio, questo non è un romanzo d’amore e i bei cieli fanno presto a mutar colore.
A rendere avvincente questo testo, di eccezionale modernità, è la scrittura di Marchesa Colombi: eloquente, intelligente, ironica, disincantata, ruvida e un po’ audace. Oltre alla formidabile capacità di rappresentare la realtà in maniera geniale e divertente, concreta e oggettiva, ma mai troppo grave né dolorosa o opprimente. Pare fondere la cura del dettaglio e delle descrizioni minuziose di Flaubert con la tagliente satira sociale di Jane Austen, in una storia che non si dimentica facilmente, anche per la sua chiusa, a mio parere tra le più memorabili della Storia della Letteratura Italiana (che pure l’ha snobbata):
«Il fatto è che ingrasso».
Il fatto è che questo universo sconosciuto, questa canone avverso, merita molta più attenzione di quanta ne abbia ricevuto sinora. E cura, tanta cura, che solo noi lettori (e non solo lettrici) possiamo dare.