Natalia Aspesi ha definito Elizabeth Von Armin una donna geniale, ironica e crudele dando così conto di quelli che sono gli elementi irrinunciabili nei suoi romanzi: l’ispirazione geniale da cui scaturisce una storia che ha sia la disinibizione del surrealismo che la concretezza del realismo; una prosa ironica al limite del sarcastico e la crudeltà dello svolgimento che spariglia puntualmente le carte in tavola, mandando a monte ogni cosa per riportare il tutto entro la placida cornice dell’happy ending.
Ne Il Circolo delle ingrate (Edizioni Bollati Boringhieri) l’estro della Von Armin si appunta – o si accanisce? – su Anna Estcourt, una venticinquenne gentildonna inglese, attraente e… zitella. Orfana di entrambi i genitori, vive a carico del fratello e della ricca cognata che non ha altro scopo nella vita che maritare questa ingrata presenza famigliare. Scopo non tanto difficile, data l’avvenenza della giovane cognata che, tuttavia «sprecava il tempo in assurde meditazioni sui misteri dell’esistenza, su perché e percome privi di risposta che di norma, tra le donne, sono esclusivo appannaggio di anziane e bruttine».
La grande occasione arriva alla morte del fratello della madre, zio Joachim, il quale lascia proprio ad Anna una tenuta vicino a Straslund (nel circondario della regione del Meclemburgo-Pomerania) del valore di circa duemila sterline: una dote niente male, un’opportunità per ripagare la generosità spesa dalla cognata Susie nei suoi confronti (generosità che la donna più grande non manca mai di ricordarle più o meno gentilmente), per accaparrarsi finalmente un buon partito e smettere di perdersi in fantasticherie e sciocchezze sull’indipendenza della donna.
«A elettrizzarla era piuttosto l’amore che provava verso i meno fortunati, il potere che aveva di aiutarli e il desiderio di passare all’azione»
Fatto sta che Anna prende il lascito alla lettera e invece che al matrimonio (e a ripagare la cognata) pensa piuttosto a come mandare avanti la tenuta venendosene fuori con un’idea, appunto, geniale: fare della casa un rifugio per donne di buona famiglia ma prive di mezzi per emanciparle dalla dipendenza e dall’infelicità. Per l’esattezza, Anna conta di ospitare dodici di queste neglette e si mette subito all’opera per realizzare quello che a tutti, tranne lei, sembra un progetto folle, a cominciare da Susie che da Straslund decide di tornare immediatamente a Londra, lasciando però “in pegno” alla cognata la figlia adolescente Letty e la di lei istitutrice Miss Leech, passando per l’intero microcosmo del piccolo paese che ha già non poca difficoltà ad accettare che la nuova proprietaria di Kleinwalde sia una donna e per di più inglese. Così, dai coniugi Dellwig al pastore Manske e sua moglie, dal giovane Klutz a Herr Von Lohm, tutti cercano per una buona o una cattiva ragione di volgere il progetto a loro favore, consigliandola, guidandola, raccomandando questa o quell’altra signorina, cercando di influenzare Anna per questa o quell’altra decisione. Dalla nuova governante di casa fino alle prescelte ‒ o quanto meno alle prime tre ‒ tutti dimostrano di anteporre i loro scopi, intenti, propositi, per buoni che siano (almeno in taluni), alla riuscita di un obiettivo che se pienamente – e giustamente – realizzato, avrebbe del rivoluzionario. Ma se gli uomini hanno una, sebbene misera, attenuante proprio nel loro sesso incapace di concepire l’intelligenza di un disegno come quello di Anna, cosa possono avocare a propria discolpa le donne, prime tra tutte le stesse prescelte? Intrighi, gelosie, orgoglio di rango: tutto trama contro Anna fino a mandare, letteralmente, in fumo il progetto in un finale che se non è una sorpresa è tuttavia un accidente che coglie alla sprovvista la stessa protagonista.
Come detto, lo stile della Von Armin è ironico, a tratti sardonico, sempre pungente, sempre brillante. La sua penna è uno stiletto pronto ad affondare nelle contraddizioni, a colpire i luoghi comuni, provocando ferite non mortali, nemmeno troppo sanguinose o dolorose, ma che bruciano, soprattutto agli occhi femminili che vedono per l’ennesima volta la triste realtà per cui non c’è peggior nemico, per una donna, di una donna stessa.
Il personaggio di Anna, in questo senso, è emblematico già nel suo rifiutarsi di essere considerata come un simbolo. È una ragazza schietta, pura, indulgente, nutre certamente grandi ideali pur senza essere mossa da alcuna forma di zelo religioso, laica com’è fino al midollo. Ma non è un’ingenua: riflessiva e acuta osservatrice, rifiuta semplicemente di lasciarsi sopraffare dalle manipolazioni altrui. Consapevole di tutto ciò che le succede intorno, resta tenace nel suo voler continuare a essere se stessa, a non rinunciare ai suoi principi, ai suoi convincimenti che l’amicizia e l’aiuto reciproco sopravanzano ogni forma di fredda e distaccata beneficenza, che la felicità o la fortuna dell’una può essere spartita con le altre senza riserve, dispetti, sospetti. Anna incarna, anche per mezzo delle sue numerose riflessioni, una filosofia umanitaria e progressista che non necessariamente fa rima con femminista.
Il romanzo, in fondo, è concepito per divertire più che per istruire: una girandola di personaggi e situazioni da commedia dell’arte, pieno di coup de théâtre e dialoghi a effetto che sostengono il ritmo della narrazione soprattutto all’inizio e alla fine della storia, mentre nel mezzo viene concesso un certo riposo, un momento per tirare il fiato e riflettere, magari, sulle diverse interpretazioni e suggestioni che Il circolo della ingrate di Elizabeth Von Armin offre per intrattenere il lettore.