Nel 2004 Pietro Citati ripercorreva ne La mente colorata (Adelphi Editore) il mito di Odisseo. Nel 2005 Margaret Atwood compiva un’impresa analoga con Il Canto di Penelope, pubblicato per la prima volta da Rizzoli e riproposto nel 2018 da Ponte alle Grazie in una nuova veste grafica. Attenzione, questo paragone non vuole indicare alcuna contiguità tra le due opere, eccetto la memoria personale e quel pizzico di curiosità risvegliata in chi scrive proprio tra la definizione di Odisseo scelta da Citati – una mente colorata è una mente duttile, poliedrica, astuta, impulsiva, calcolatrice, finanche presuntuosa – e uno dei temi sui quali insiste la Atwood in questo suo romanzo breve: Odisseo è stato davvero l’eroe più scaltro della Storia della Letteratura Occidentale o solo un grande mentitore?
A rispondere di questo quesito è la moglie Penelope, figura dai più ricordata per la sua inesauribile pazienza, per la fedeltà, ma anche per l’intelligenza e l’ingegnosità dimostrata nel tessere una tela infinita, disfatta ogni notte e ripresa ogni giorno, solo per ingannare l’inquieta bramosia dei Proci pretendenti alla sua mano e al suo regno. Una leggenda edificante, un modello di donna («un bastone con cui picchiare altre donne»), ma chi era davvero Penelope? Ora che tutti hanno parlato, è il suo turno di raccontare la sua versione della storia, dalle origini (figlia di Icario, re di Sparta e di una Naiade), al matrimonio, al rapporto polemico con la cugina Elena, la vita a Itaca al tempo della guerra di Troia e quelli del tempo dell’attesa del ritorno del marito in patria. E lo fa da un’Ade che non è quello dantesco, in cui pure Odisseo appare, e non a caso nel girone dei consiglieri fraudolenti.
È un Ade attuale, hic et nunc, il che significa che Penelope ha aspettato oltre tremila anni per parlare. E qui è impossibile non chiedersi il perché: scelta originale, ma puramente arbitraria o ponderata dalla Atwood? Azzardo un’ipotesi (del tutto personale, s’intende): e se Penelope abbia dovuto attendere che la Storia riconoscesse (o quasi) anche alle donne il diritto di parola? Ne deriverebbe un’interpretazione femminista che, benché negata dall’autrice, troverebbe tuttavia conferma proprio nello spazio occupato dalle dodici ancelle uccise da Odisseo insieme ai Proci al suo ritorno («No, signore, noi neghiamo che la nostra tesi sia un’infondata sciocchezza femminista») nell’economia della storia; ragazze giovanissime, trascurate dalla critica e dalla storiografia letteraria canonica e sacrificate per colpe che forse non avevano commesso o se pure le avevano commesse, era stata proprio Penelope la reale istigatrice.
«Cosa suggerisce il nostro numero, il numero delle ancelle – il dodici – a una mente colta? Gli apostoli sono dodici, c’è la Dodicesima Notte, quella dell’Epifania, ma anche i mesi dell’anno sono dodici (…) e un mese, come tutti sanno, corrisponde a una lunazione, cioè al tempo impiegato dalla luna per tornare nella stessa fase. Oh, non è una coincidenza che noi fossimo dodici, non undici, non tredici, neanche otto. Perché noi non eravamo semplici ancelle (…). La nostra posizione era più elevata! (…) potevamo essere devote sacerdotesse che celebravano i sacrifici rituali: prima l’orgiastico rito della fertilità cedendo ai pretendenti, poi quello della purificazione lavandoci nel sangue degli uomini uccisi»
Le ancelle appaiano sulla scena in forma di coro, come personaggio collettivo, partecipe degli eventi tanto quanto i protagonisti, aggiungendo emozioni, punti di vista, persino azioni che altrimenti non sarebbero rappresentati. L’effetto, in verità, è straniante: la struttura del romanzo è sì abbastanza scenica ‒ un lungo monologo ‒ ma le affinità con la forma della drammaturgia classica finiscono qui. Il coro delle ancelle risulta quasi un’interferenza, un’intrusione e tuttavia il loro contrappunto getta una luce più intensa sulla figura di Penelope, misteriosa, intricata, inestricabile. Intelligente, è la parola che ricorre più spesso, la qualità che la stessa protagonista reclama per sé stessa (in contrapposizione alla bellezza della cugina Elena). “πολύτροπος” (“polytropos“): dal multiforme ingegno, al pari di Odisseo.
Il Canto di Penelope di Margaret Atwood è un testo che pur nella sua brevità offre numerosi spunti di analisi, a partire da un recupero del mito, della leggenda, dell’epos omerico (o sia pure da una conoscenza primaria per chi non ne avesse familiarità) e non necessariamente con piglio filologico. Piuttosto con curiosità, interesse, desiderio di sapere, partecipazione, passione. Con la stessa mente colorata, insomma, che Citati attribuiva a Odisseo.