Di Felicia Kingsley su questo blog abbiamo detto di tutto, ma di più ancora si può dire andando alle origini del fenomeno, con Matrimonio di Convenienza (Newton Compton) il romanzo d’esordio, il libro che l’ha rivelata prima attraverso la pubblicazione in self e il passaparola dei lettori e poi svelata con il sigillo della Newton. In qualche modo, questa specie di viaggio a zig zag nella carriera di questa talentuosa autrice modenese (in principio fu Stronze si nasce, poi l’ultimo, inesauribile best seller, Una Cenerentola a Manhattan) consentono di cogliere il percorso, magnifico e progressivo, in tutte le sue sfumature, misurando la crescita, ma soprattutto la capacità di trasformare il potenziale in espressione piena e consapevole.
L’ho già detto, e qui mi ripeto, che una delle caratteristiche più geniali di questa scrittrice è l’attitudine a trattare i suoi lettori con rispetto e intelligenza attraverso un uso non banale della lingua e scelte narrative mai scontate. I suoi libri possono essere leggeri ma non saranno mai sciatti, trascurati, approssimativi o lacunosi. Piuttosto sull’arguzia, sulla verve, sullo spirito e la cura dei dettagli si potrà sempre fare affidamento, una sorta di marchio, di garanzia di qualità, requisito fondante, attributo imprescindibile.
«Puoi avere tante cose da dire, ma devi metterti in una posizione tale per cui la gente con cui ti confronti abbia voglia di ascoltarle»
In Matrimonio di convenienza, sullo sfondo di una caotica, complessa e multiforme Londra, la ventiseienne Jenna Pears, truccatrice teatrale in produzioni minori e troppo spesso sconclusionate, riceve l’inaspettata eredità della nonna materna Catriona, facoltosa proprietaria di fabbriche di armamenti che aveva a suo tempo diseredato la figlia Carly, ribelle e controcorrente, a causa del suo matrimonio con Vance, un hippy pacifista convinto, con i capelli lunghi fino al sedere e soprattutto privo di un titolo nobiliare. Che poi è la stessa clausola che mette un freno alla libertà di Jenna di ereditare: la condizione posta da sua nonna è che per rimediare (o vendicarsi?) al torto fatto dalla madre, la figlia ne prenda il posto nel gotha del ton britannico, in altre parole che sposi un pari, un lord.
Dall’altra parte c’è Ashley Parker, duca di Burlingham, che invece di ereditare il favoloso patrimonio di famiglia, lo ha appena visto sfumare per colpa degli incauti investimenti paterni. A salvare capre e cavoli ci pensa Derek, avvocato e amico di entrambi: un matrimonio di convenienza permetterebbe a Jenna di ereditare e a Ashley di salvare il conto in banca, la residenza di famiglia, la casa a Bath e soprattutto la faccia, perché nella regale Inghilterra un titolo, per quanto nobiliare, da solo non vale.
Ma come è anche solo possibile pensare che possa funzionare tra un uomo algido, borioso, amante del tennis e capitano della sua squadra di polo, e una donna con i capelli viola, il trucco sempre troppo marcato e una passione sfegatata per il calcio e per l’Arsenal, soprattutto sotto lo sguardo truce della duchessa madre Delphina, una che riuscirebbe a mettere a tacere persino l’impagabile contessa Violet di Downton Abbey? Un castello di centocinquanta stanza riuscirà a tenere le loro vite separate fino al momento in cui l’indiscutibile divorzio consentirà a Jenna e ad Ashley di ritornare a percorre ognuno la propria strada?
Tra battute irriverenti, incidenti, accidenti, sorprese e sgambetti, Felicia Kingsley confeziona una vera e propria favola di romanzo, in cui, anche se è la donna a interpretare il ruolo del principe azzurro, non si rinuncia al sogno, perché è normale e sano, aggiungerei, per ogni donna voler essere Rossella salvata da Reth, Rose, straziata, che vede annegare Jack, o Romeo che si avvelena per Giulietta.
La parola chiave, nei libri della Kingsley è merito, declinato secondo due accezioni che illuminano il genere romance scardinandone alcuni cliché dal suo interno: merito della scrittura: brillante, accurata, capace di plasmare personaggi vividi, tridimensionali, dotati non solo di una bella forma ma anche di una sostanza finissima, giocata tutta su mezzi toni, su sfumature psicologiche e sentimenali quanto mai realistiche. E merito dello stile: limpido, diretto, in cui alla struttura essenziale della storia si somma un protagonismo femminile attivo e tuttavia immerso in una luce da favola.
Ma che la donna (e non solo la donna, l’umanità tutta, si potrebbe anche dire) abbia bisogno di farsi trascinare dall’amore non è una favola: è la realtà. Che lo si voglia ammettere o meno. Ma è meglio ammetterlo, perché è la verità e con la verità non si sbaglia mai.