Il mistero dei tre quarti di Sophie Hannah e Agatha Christie®

Il primo enigma da risolvere quando ci si accosta alla lettura de Il mistero dei tre quarti di Sophie Hannah (Mondadori Editore) è che quell’Agatha Christie® che compare sul frontespizio è di fatto un marchio registrato e non una co-autrice. Si tratta, in altri termini, della formalizzazione di un brand necessario per ragioni legali (i diritti d’autore sulle opere della Christie non sono ancora scaduti) affinché Sophie Hannah ‒ già affermatasi come autrice di libri per bambini e thriller psicologici ‒ possa continuare la serie dei racconti delle insuperabili gesta del celeberrimo Hercule Poirot, il detective belga, baffuto, con la testa a uovo, la fissazione per l’ordine, la simmetria e la buona cucina, lo studio dei caratteri umani come chiave di (s)volta per risolvere i casi più intricati e apparentemente impossibili e disperati.

La cosa buffa, a pensarci, è che Dame Agathe odiava questa sua creatura (è stata lei stessa a dichiararlo in più di un’occasione), benché l’avesse battezzata regina indiscussa del genere giallo e ne avesse affermato la fama e la gloria imperitura. Chissà, dunque, come avrebbe preso il fatto che a distanza di quasi quarantacinque anni dalla sua morte si è deciso di riprendere proprio la serie del detective geniale affidandola ad altre mani, perché è possibile riportare in vita un personaggio ma non (ancora) una persona.

Questa nuova serie di Poirot (perché di serie si tratta: Il mistero dei tre quarti è il terzo dopo Tre stanze per un delitto e La cassa aperta) a cura di Sophie Hannah deve dunque essere considerata una mera operazione commerciale? No. In primo luogo perché la stessa Agatha Christie non ha mai fatto mistero del carattere commerciale di buona parte del suo lavoro di scrittrice. In secondo luogo perché prevale, a mio parere, il carattere nostalgico di questo tipo di operazione: tale è l’attaccamento dei lettori per le imprese del mitico Poirot (recentemente confermate anche da film e serie tv) che il piacere di poter leggere un’altra delle sue avventure, accompagnarlo in un’altra delle sue indagini, esercitando le nostre celluline grigie per sciogliere intrighi, misteri e delitti, è sincero e tale da far sperare che la Hannah prosegua in questo suo percorso ancora a lungo.

Più fondamentale è capire quanto dell’inconfondibile stile e del carattere della Christie sia presente in questi nuovi romanzi, quale e quanta parte del suo spirito, della sua brillantezza, della freschezza, dell’abilità nell’invenzione e nella strutturazione delle trame vi si ritrova. È chiaro che si tratta di equilibri delicati, convivenze complesse, ricerca di una strada che sia al tempo stesso originale e familiare per il lettore. La Hannah ci è riuscita attraverso un’intuizione narrativa che le permette di ritagliarsi un proprio spazio di manovra, una sua autonomia stilistica, affidando il racconto alla voce di un personaggio completamente nuovo: il sovraintendente della polizia di Scotland Yard, Edward Catchpool. Non il mitico Capitano Hastings, dunque, e nemmeno lo storico ispettore Japp, ma un narratore slegato dal mondo storico della detection della Christie a cui è concesso l’uso di un tono e di un registro linguistico assolutamente inediti.

Della tessitura originaria restano i fondamenti: le eleganti atmosfere degli anni Trenta inglesi, una ristretta cerchia di persone sospette, un numero limitato di assassini tra cui scegliere, case di campagna, collegi, hotel, ambientazioni tutto sommato circoscritte e per certi versi claustrofobiche, che accentuano il senso della crudeltà e del delitto. Oltre, ça va sans dire, alle inconfondibili idiosincrasie del protagonista, i suoi metodi solo in apparenza non convenzionali ma di fatto tutti basati sulla ferrea logica e l’inflessibile applicazione della razionalità.

Di contro, va rilevata una certa tendenza alla diluizione del ritmo narrativo: laddove la Christie si distingueva per una notevole capacità di concentrazione che manteneva il lettore sempre incollato alla pagina, Sophie Hannah tende a disperdersi, ad allungare i tempi. Si nota in questo, probabilmente, la mano della scrittrice avvezza più al thriller che al giallo, alla creazione della suspense, che è cosa diversa dalla sintesi deduttiva del romanzo giallo.

Tutta questo preambolo – molto, troppo lungo, ahimè – è sembrato tuttavia doveroso per “preparare” il lettore al fatto, inconfutabile, che si è di fronte a una transcodificazione letteraria, a un’alterità. C’è Poirot e c’è il nome di Agatha Christie in copertina ma l’orizzonte d’attesa deve essere quello di una classica crime novel e non della specifica crime novel di Dame Agathe. Sottigliezze. Ma vale sempre la pena ricordarle.

E adesso arriviamo finalmente a Il mistero dei tre quarti.

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Un giorno di febbraio, rientrato a casa dopo pranzo, Hercule Poirot trova ad attenderlo una donna visibilmente adirata. È Sylvia Rule e vuole sapere perché Poirot le ha mandato una lettera in cui la si accusa dell’omicidio di Barnabas Pandy, un venerando milionario di cui lei non ha mai sentito parlare né ha mai incontrato. Poirot è a dir poco sconcertato: non ha alcuna, sia pur minima, idea di chi possa essere Barnabas Pandy e, soprattutto, non è l’autore della famigerata lettera. Così come non lo è delle altre tre lettere, firmate e spedite sempre a suo nome, e contenenti la medesima accusa, indirizzate, rispettivamente, a John McCrodden, Annabel Treadway, Hugo Dockerill, che, uno dopo l’altro, sfilano davanti all’investigatore protestando la propria innocenza.  Ma se non è Poirot l’autore delle lettere misteriose, chi è che si spaccia per lui e perché? Chi sono in realtà i destinatari? Quali relazioni intercorrono tra loro e con la vittima? E, a proposito della vittima, chi era davvero Barnabas Pandy? È morto, come archiviato dalla polizia di Scotland Yard, di morte naturale o è stato davvero assassinato. E perché si vuole, ad ogni costo, attirare l’attenzione del celebre Hercule Poirot sul caso?

Le domande sono tante, la risposta una sola. E toccherà a uno dei più famosi detective della storia della narrativa di genere, con l’aiuto del suo nuovo amico Catchpool scoprirlo, sbrogliando una matassa il cui capo si perde in un oscuro passato e la soluzione è – letteralmente – servita da un particolare tipo di torta, chiamata Torta Vetrata di Chiesa.

«Che cos’è il mistero dei tre quarti, Mr Poirot?»

«Ve lo spiegherò. Noterete, come tutti noi, che questa fetta di torta si compone di quattro quarti. Nella fila superiore, se posso chiamarla così, abbiamo il quadratino giallo e poi quello rosa, mentre in quella inferiore c’è prima il rosa, poi il giallo. Ma dal momento che non abbiamo ancora usato il coltello, abbiamo anche la fetta intera, non divisa. […] Poirot prese il coltello e tagliò di nuovo in due una metà della torta. Ridispose i quadrati gialli e rosa sul piatto: tre vicini e uno solo e separato. «Questo, mes amis, è quello che ho definito il mistero dei tre quarti!»

In conclusione, si può leggere Il mistero dei tre quarti di Sophie Hannah come sequel della grande Agatha Christie (fatto salvo tutto quanto si è cercato di spiegare in precedenza) o come romanzo giallo facente capo solo a se stesso. In entrambi i casi, quella che ne risulterà sarà una lettura piacevole, coinvolgente, appassionante. E più di tutto una sfida: sapremo noi lettori interpretare correttamente tutti gli indizi e risolvere il mistero prima di Hercule Poirot? Perché, in fin dei conti, non è questo ciò che cerchiamo di fare quando decidiamo di leggere un giallo?

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