Lo straordinario di Eva Clesis (Las Vegas Edizioni) è un romanzo stupefacente. Aggettivo, quest’ultimo, affatto iperbolico e da prendere – semmai – alla lettera. Un romanzo (caso raro) che è riuscito a farmi ridere e non solo sorridere, svagare e dilettare imprimendo comunque ai miei pensieri un corso estrospettivo e decentrato da me stessa, non perché non mi sia sentita in sintonia con Lea, la protagonista – casomai è il contrario: je suis Lea! – ma perché è una di quelle letture che ti portano a fare davvero molto caso a tutto ciò che ti circonda, a ogni minimo segnale (anche sensoriale) del mondo esterno (e a come ti può influenzare), guidandoti verso una comprensione non solo superficiale e di maniera ma intima e oggettiva dell’altro (incluso l’altro da sé).
Ma facciamo un passo indietro e iniziamo dalla trama: Lea (che ha una gemella di nome Tea, che vive a Parigi ma che per il tipo di rapporto che hanno e le divergenze identitarie potrebbe benissimo vivere anche sulla luna, una madre psicologa che l’ha sfinita a forza di traumi subliminali, e un padre assente, anzi praticamente inesistente) si ritrova alla bella età di 37 anni senza lavoro, senza fidanzato e pure senza casa.
«A voler riassumere: non ha soldi, non ha un lavoro, non ha una casa né il coraggio di telefonare a sua madre per farsi aiutare. Ma ha una cosa che nessuno può toglierle: trentasette anni. E una vita che si sbriciola più di un pan tranvai»
Nonostante la necessità di risolvere tutte le sue sfighe, quella di avere un tetto sulla testa è più che una necessità, ma senza soldi e senza lavoro, a Milano, come si fa? Dopo una ricerca tanto serrata quanto estenuante, pare che Lea riesca a trovare una sistemazione (almeno logistica) più che decente. Anzi, a dirla tutta, pare che le capiti un vero miracolo:
«Parquet lucido in ogni stanza, divanetti lillà dai cuscini soffici con accanto tavolini bassi, tappeti persiani, letto in ferro battuto, piccola cabina armadio (…) e infine una splendida libreria incassata nel muro»
Il tutto per duecentocinquanta euro di affitto, nessuna quota condominiale, periferia nord non lontano da Cinisello Balsamo, una frazione che nessuno ha mai sentito nominare. Ma che importa? Almeno può ricominciare.
Gli altri condomini lo chiamano Lo Straordinario. I padroni di casa sono una coppia di anziani cortesi, premurosi, affabili e sempre disponibili. Tutti sono pronti ad accogliere Lea come in una grande famiglia, e a darsi un gran daffare per farla sentire a suo agio e non farle mancare niente: dolcetti, spesa, persino un gattino di benvenuto. Tutto bellissimo. Tutto perfetto. Ma la perfezione non esiste o se esiste è una gran fregatura.
Ci vuole poco, per Lea, a capire che, tra orticelli autosufficienti e serre sempre fiorite, pasticcerie, librerie e aperitivi pomeridiani, Lo Straordinario è un piccolo mondo antico o un universo parallelo o una prigione dorata dove gli uccellini cinguettano alle sei del mattino più precise di un orologio svizzero e il profumo di sambuco è onnipresente anche a novembre.
E infatti, quando mai Lea riesce, una volta che ci è entrata, a mettere piede fuori dallo Straordinario? Tra scuse, pretesti e pretese sembra restare impigliata e senza spazi di manovra (ma per sfuggire dove?). È fin troppo facile sospettare di essere diventata la rotella di un ingranaggio più grande di lei, soggiogata dall’amabile combriccola dei suoi vicini di casa. Se poi ci si mettono le sobillazioni di uno degli altri condomini…
Dov’è finita veramente Lea? Cosa si nasconde dietro l’idilliaca facciata dello Straordinario?
Divertente, insinuante, Lo Straordinario di Eva Clesis si muove in punta di piedi tra simil-distopia (a me personalmente ha ricordato La fabbrica delle mogli di Ira Levin, a qualcun altro Rosemary’s Baby dello stesso autore), giallo psicologico e romanzo d’amore (in rete ho letto accostamenti alla Kinsella, ma non avendo mai letto un suo libro, non posso né confermare né smentire) senza perdere mai un passo, armoniosamente, con un ritmo incalzante e situazioni e colpi di scena che sono, in verità, veri e propri coup de théatre, e un finale in cui il surreale definisce il reale dandogli uno spessore sconosciuto ma non per questo meno concreto.
Lea è una di noi (o anche uno di noi, l’identità di genere non inficia minimamente sulle possibilità di identificazione del lettore nel personaggio), è un quasi manifesto generazionale che vive di contraddizioni, precarietà, confusioni e illusioni, ma anche di collisioni con il retro dello stesso manifesto, quelli che “ce l’hanno fatta” (vedi la sorella gemella Tea – ma come? Ma perché? Ma dove abbiamo sbagliato invece noialtri/e?).
Anche lo stile è straordinario: leggero, ironico, una perfetta, consapevole, sagace combinazione di scelte lessicali, sintattiche e strutturali che spicca in un panorama narratologico tristemente piatto e che si sposa a meraviglia con la trama e col carattere della protagonista; cucito su misura, si potrebbe dire, tagliato addosso con una maestria d’altri tempi. Altro che «cappotti dell’Upim».
Ma poi, Eva Clesis è di Bari, la mia stessa città (anche se io l’ho scoperto solo leggendo l’aletta del retro di copertina). Perciò, di cosa stiamo parlando? È normale che (per me, ma ve lo consiglio con la sicurezza del 100% soddisfatti o rimborsati) il suo romanzo sia Straordinario…