Storia di una famiglia perbene di Rosa Ventrella

«Mi chiamo Maria. Maria De Santis. Sono nata piccola e bruna come una susina matura». Inizia così Storia di una famiglia perbene di Rosa Ventrella (Newton Compton Editori), libro uscito da meno di due mesi e già in traduzione in 14 paesi, oltre a essere già stato opzionato per una trasposizione cinematografica.

Ma non sono queste le ragioni per cui ho desiderato fortemente leggere questo romanzo.

Rosa Ventrella è nata a Bari (anche se ora vive a Cremona), la mia Bari, e Bari è la vera protagonista del romanzo. Bari Vecchia, per la precisione. Anche se chi, come me, discende una famiglia che lì è nata e vissuta fino a un paio di generazioni fa, non ama per niente questa definizione che sa di ghetto più che di quartiere, cosa che – semplificando molto – di fatto è. Il quartiere Nicolaiano o quartiere S. Nicola. Che è poi come lo chiama Rosa Ventrella nel suo romanzo, dettaglio che già da solo fa la differenza. Per il resto, è forse l’unica concessione, l’unica indulgenza che si concede a una narrazione socio-antropologica estremamente efficace dell’ambiente all’interno del quale si tessono i fili delle vicende narrate.

Perché tutto il libro è il grande affresco di una società con i suoi riti e i suoi miti, le tradizioni (le masciàre e le mascìne), i suoi costumi, gli usi e gli abusi: il quartiere S. Nicola a Bari non è un ghetto ma un microcosmo difficile da penetrare e comprendere per chi lo guarda dal di fuori, fermandosi su quella specie di linea di confine che è Corso Vittorio Emanuele e che separa fisicamente (e appositamente, bisognerebbe aggiungere, perché l’architettura e la struttura urbanistica non sono state concepite casualmente) Bari Vecchia da Bari Nuova, costringendo la città a vivere con un’anima spaccata in due, in un perenne stato di bipolarismo sociale che, negli anni, non ha risparmiato i suoi abitanti. Anche oggi, oggi che il quartiere ha subito una profonda riqualificazione, ancora oggi, chi viene da fuori si sente estraneo: cammina tra i vicoli seguito da tanto d’occhi che si chiedono chi sei, perché non ti hanno mai visto prima? Da dove vieni? E tu… e io, che ci torno periodicamente come in pellegrinaggio per rivedere la casa, la scuola, i vicoli dove mia madre è nata, cresciuta, ha giocato, la chiesa che ha frequentato (la stessa in cui si sposa il fratello della nostra protagonista) rispondo: “Appartengo a chidd de li Biund” ‒ perché ogni famiglia, nel quartiere, ha il suo soprannome, ce lo ricorda anche l’autrice ‒ per rassicurarli. E ciononostante la diffidenza c’è. Ed è palpabile.

La si sente anche nel romanzo di Rosa Ventrella.

HappyDay of theSeafarer!

 

Storia di una famiglia perbene si dipana a cavallo tra gli anni 80 e 90, e a narrarla è Maria De Santis, detta Malacarne, dal «sangue freddo come le lucertole», bambina sensibile e ostinata al tempo stesso, una combinazione talvolta fatale. Il tempo nel quartiere segue il ritmo dei vicoli, tra odori, sapori e le interminabili chiacchiere sull’uscio delle comari. Suo padre è un pescatore e oscilla, come le maree, tra l’astio e la dolcezza, la violenza e la comprensione. A farne le spese è la famiglia, la madre in primis – donna semplice, un tempo bella e aggraziata, ora sottomessa al marito e spesso persa in un mondo tutto suo.  Ha anche due fratelli più grandi Maria, Giuseppe e Vincenzo: il primo un bravo uaglione, il secondo «nato storto». Poi c’è lei, bambina a tratti selvaggia ma intelligente e dotata per gli studi, tanto che il maestro Caggiani farà di tutto per farle proseguire gli studi nello storico Istituto del Sacro Cuore prima, al liceo Fermi e alla Facoltà di lettere poi.

Ma è la scuola elementare a segnare il suo destino. È lì che Maria incontra Michele Straziota, figlio della delinquenza del quartiere. O almeno delinquente lo è sua padre, Nicola Senzasagne (letteralmente: senza sangue, freddo, privo di compassione e di ogni briciolo di umanità) e lo sono i suoi fratelli. Da quel padre e da quei fratelli Michele cerca una distanza, proprio come la cerca Maria. Ma sono distanze che invece di avvicinarli, li separano. Col passare del tempo, la difficile amicizia tra i due si tramuta in un legame ancora più complesso. Un legame che per quanto forte e profondo possa essere, non sarà mai più forte del degrado che li circonda.

«la sostanza di ognuno di noi passava attraverso quella dei nostri padri»

Un romanzo corale, anche se la voce narrante è una. Ma non c’è dubbio che il contesto, il background socio-culturale non fungano solo da sfondo, da scenografia contenente elementi più o meno folcloristici. È come il sistema cardio-circolatorio in un organismo umano: senza, il cuore (del romanzo) non potrebbe pulsare. E il cuore del romanzo è il percorso di formazione di Maria, la malacarne, la bambina (poi ragazzina, poi giovane donna) che attraversa la storia e cresce con essa:

«Non ero né carne né pesce, per questo forse le altre finirono per temermi e odiarmi allo stesso tempo, perché destabilizzavo la loro gerarchia, scompaginavo ogni gradino dell’evoluzione sociale»

Dunque è anche un romanzo di formazione. Formazione dell’identità, che prescinde dalla provenienza famigliare e si aggrappa al nutrimento del talento e all’intelligenza che Maria possiede.

Infine, la storia d’amore, ma così delicata e fragile che quasi si fa fatica a sentirla; anche solo a parlarne nasce la paura di spezzarla.

Le ultime parole le spendo per lo stile, capace di armonizzare e, anzi, sublimare, registro aulico e dialetto stretto senza che il lettore si incagli in cesure linguistiche troppo nette. È vero pure che io conosco bene il mio dialetto, ma proprio per questo in genere è uno di quegli elementi della lingua di un romanzo che tengo sempre sotto stretta osservazione. Ecco perché mi sento di affermare, in tutta coscienza, che la lettura di Storia di una famiglia perbene di Rosa Ventrella dona momenti di autentico coinvolgimento e di emozioni intense e merita di essere letto, ancora prima di essere visto – quando accadrà – su uno schermo.

 

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