Le stanze dell’addio di Yari Selvetella

Yari Selvetella e il suo Le Stanze dell’addio (Bompiani) è tra i dodici finalisti del prossimo premio Strega, ma è anche il protagonista della terza edizione del Gruppo di lettura day organizzato ormai da due anni da Isabella Borghese e Book Media Events (se volete saperne di più, vi linko qui un articolo di presentazione e qui l’evento facebook al quale ognuno può partecipare, volendo). Un’esperienza quella del Gruppo di Lettura Day che condivido con le mie amiche e colleghe di Leggendo a Bari. 

Non si tratta di un libro facile, né da leggere né da descrivere e questo per una ragione tanto elementare quanto fondamentale: questo libro è sentimento (la definizione non è mia ma dell’autore stesso che ho avuto la fortuna di ascoltare durante la presentazione presso la libreria Libriamoci di Bitritto (BA) lo scorso 18 maggio).

Non un sentimento, ma sentimento puro e crudo, come l’amore, come il dolore, come la paura, come la gioia. Ecco: come si possono descrivere questi sentimenti? Ognuno lo farà a modo suo, evocando immagini, situazioni, persone, oggetti che saranno di una concretezza quasi feroce per chi li celebra, e di un astrattismo ambiguo e scivoloso per chi, non avendoli sperimentati (o non avendoli sperimentati in quella esatta forma) vi assiste.

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Ma per entrambi – autore e lettore – questo testo e il suo contenuto diventano come Moby Dick, l’irraggiungibile e sempre sfuggente balena bianca narrata da Herman Melville, non a caso emblema scelto dallo stesso Yari Selvetella e periodicamente richiamato alla memoria dalla narrazione.

A cosa sta sfuggendo l’autore? A cosa sta cercando di dire addio, rincorrendolo di stanza in stanza?

Le stanze dell’addio è ciò che oggi si definisce un’autofiction, la versione romanzata di un accadimento personale: in questo caso la morte per un fulminante cancro al midollo osseo della giovane moglie dell’autore. Perciò la risposta più ovvia alle domande poste in precedenza sarebbe: il dolore, il lutto, la perdita.

Il fatto, tuttavia, che una risposta sia ovvia non significa necessariamente che sia anche quella giusta. Sì certo, c’è un lutto da elaborare, una perdita con la quale imparare a convivere e un dolore a cui dare forma, una forma solida ma non definitiva, e soprattutto uno spazio da costituire, uno spazio né troppo stretto né troppo largo per farne qualcosa che possa restare ma senza ferire, qualcosa che si possa ricordare senza esserne turbati ogni giorno, ogni momento.

Domina, in qualche modo, l’estraneità, e l’amore, come il dolore, è assenza e lontananza, appare attraverso il ricordo di un gesto, di un atteggiamento, un libro, un vestito.

È quello che fa Yeri Selvetella per trasformare il lutto, il dolore e la perdita in sentimento. E lo fa tornando – fuor di metafora – in ogni stanza che ha contribuito a formarlo, sia essa una stanza di ospedale o la loro camera da letto, fino all’ultima quella che l’uomo coi baffi (l’autore) mostra al ragazzo del bar (estensione, manifestazione, personificazione del lettore):

«Questa è la stanza in cui si rimane prigionieri, come frutti sotto spirito conservati in un vaso scheggiato, questa in cui siamo, cullati e instupiditi dalla sofferenza. Si dorme più o meno, si gustano speranze tradite, latte inacidito, ci si stordisce bevendo aceto, si vaga e si domanda, si incrociano dati di analisi scadute e supposizioni sullo sulla concatenazione di eventi che hanno condotto a un esito fin troppo noto e, in questa tiritere, si citano elementi a propria discolpa o a carico di medici e parenti, e in questo battito ci si perde per anni»

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L’intero libero è scritto per sfuggire alla prigionia di questa stanza, ma non è una fuga. È una mappa, un tracciato, un percorso per scegliere di muoversi in altre stanze, altri luoghi, tornare al mondo, tornare alla vita.

«In una vita creo, nell’altra parlo e vago, in entrambe scrivo: con la mano destra una commedia; con la sinistra la storia disperata dell’uomo coi baffi e con lo zaino»

Questo sdoppiamento, questa collisione tra esistenze che sono parallele ma di fatto è una sola, è ciò che provoca lo straniamento del lettore che si trova nella stessa posizione del barista: intercetta una storia e la scopre diversa da quella che aveva immaginato; coglie frammenti ma non c’è un puzzle da ricostruire perché la vita non è un quadro perfetto, manca sempre un pezzo, c’è sempre un anello che non tiene, una crepa, una fessura e da ognuna di queste filtra il tentativo di dare un senso, andare avanti. Questo libro non è un’elegia ma un inno alla vita che continua.

Merito anche di una prosa lirica, di montaliana memoria, di una sintassi organizzata secondo una precisa progressione di immagini e pensieri, assecondata da un registro discorsivo, quasi colloquiale, che non rinuncia a un lessico ricercato e prezioso, e interseca, invece, con formidabile perizia, metafore e sinestesie, apostrofi e ossimori, chiasmi, iperbole e metonimie.

Eppure, alla fine di tutto, quello che questo libro vuole significare è il futuro, per quando caduco ed effimero.

«Rivendico, voglio dirle, il diritto di amare»

 

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