Inevitabile per chi, come me, nata e cresciuta a Bari, laureata all’Università degli Studi che porta il suo nome, non ricordare, sebbene per sommi capi e con tutte le limitazioni del caso, il quarantennale della morte di Aldo Moro che ricorre mercoledì 9 maggio attraverso l’analisi di un libro, L’affaire Moro di Leonardo Sciascia (Adephi Editore).
Si tratta, come ben si potrà intuire, di un libro non esattamente fresco di stampa: Sciascia pubblicò questo breve volume nell’autunno del 1978 mentre ancora fremevano le polemiche e mentre egli stesso era membro della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso. Molti altri libri sono stati scritti e, in tutta probabilità, continueranno a essere scritti sull’affaire Moro, testi che rievocheranno la cronologia dei fatti, la contingenza degli stessi, il momento storico e politico; che affermeranno teorie complottistiche, avanzeranno ipotesi di connivenza tra gli apparati statali e i brigatisti o chissà che altro.
Personalmente, tuttavia, non è attraverso le congetture, le supposizioni o giudizi più o meno fondati su presupposti presunti o reali che mi interessa ricordare questo anniversario: L’affaire Moro di Leonardo Sciascia, per quanto si possa considerare opera datata, resta, a mio parere la testimonianza più vera, onesta, lucida e nitida dei fatti intercorsi dalla mattina del 16 marzo 1978 – quando l’Onorevole Aldo Moro venne prelevato in via Fani mentre si dirigeva in Parlamento per ratificare la fiducia al nuovo governo Andreotti, un governo di centro-sinistra da lui fortemente voluto – e il 9 maggio dello stesso anno quando il cadavere dell’allora Presidente della Democrazia Cristiana fu fatto ritrovare nel bagagliaio di una Renault rossa in Via Caetani.
Di mezzo ci sono 55 giorni di detenzione in quella che i brigatisti rossi chiamarono enfaticamente e retoricamente «prigione del popolo» e, soprattutto, i cinque morti della scorta ammazzati il giorno stesso del rapimento: Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Domenico Ricci, Oreste Leonardi. Questi i fatti ridotti all’essenziale. O anche meno: più che fatti, questi sono spiccioli ma non è intenzione di questo scritto ripercorrere dettagliatamente gli avvenimenti di quella pagina tragica e oscura della Storia d’Italia. La scelta di un libro come L’affaire Moro di Sciascia non è stata casuale: privo di ogni tipo di sovrastruttura politicizzante o politicizzata, offre invece una lettura filologica, letteraria dell’affaire come se esso fosse stato “già scritto”, o meglio:
«(…) che vive in una sfera di perfezione letteraria che non si può che fedelmente riscrivere»
E che allo stesso tempo esso è:
«Un fatto vero e reale».
Non si tratta né di un paradosso né di un pleonasmo: Sciascia è uomo di lettere, autore, tra le altre cose, di romanzi polizieschi, convinto che la «realtà non sempre è osservabile in maniera obiettiva, e spesso è un insieme inestricabile di verità e menzogna» (Marta Sambugar e Gabriella Salà, Letteratura italiana, nº 2, Firenze, La Nuova Italia, pp. 680-681) e ne L’affaire Moro sembra applicare un assunto di teoria letteraria sul romanzo poliziesco studiato ai tempi dell’Università secondo cui il delitto è caos linguistico per risolvere il quale è necessario innanzitutto ripristinare l’ordine delle parole.
Per spiegarlo bene è necessario aprire una breve parentesi e ricordare il significato di due termini forse abusati ma sempre centrali in linguistica (strutturalista o no) ‒ langue e parole ‒ così come enunciati da Ferdinand De Saussure nel suo Corso di Linguistica Generale (1916).
La langue è il sistema di segni che formano il codice di un idioma, i fonemi, le parole e gli altri elementi che lo compongono. La parole è l’atto linguistico individuale e irripetibile. Nel romanzo poliziesco il caos del delitto è equiparabile a una sorta di langue destrutturata e falsificata all’interno della quale l’investigatore deve riportare l’ordine della parole ricondotta a sistema ordinato (individuale e irripetibile, appunto). Un concetto che prima ancora di essere codificato teoreticamente dalla linguistica era stato affermato fattivamente dal padre storico del romanzo giallo – Edgar Allan Poe inventore del cavaliere Charles Auguste Dupin, primo investigatore letterario della Storia della narrativa poliziesca – non a caso spesso chiamato in causa dall’autore nel suo volume sull’affaire Moro.
Nello specifico, il procedimento di Sciascia si concretizza in una fine analisi linguistica e filologica delle lettere che Moro scrisse dal carcere, molte delle quali rese pubbliche. Lettere nelle quali il prigioniero reiterava appelli ai suoi colleghi affinché prendessero in considerazione lo scambio di prigionieri chiesto dai brigatisti in cambio della sua vita; lettere che quegli stessi colleghi di partito definirono «scritte sotto coercizione», frutto del logoramento dovuto alla prigionia, specchio di un Aldo Moro che loro disconoscevano e che furono sostanzialmente ignorate.
È questo il fulcro del lavoro di Sciascia: dimostrare come invece quelle lettere fossero state scritte in totale autonomia e lucidità di pensiero attraverso uno studio puntuale di quei testi, della loro struttura, delle scelte lessicali (il passaggio, qualitativamente rilevante, dalla locuzione “autorità di Stato” a “potere di Stato” a cui si assiste dalle prime alle ultime lettere), la scelta degli interlocutori, il richiamo ad affermazioni che i destinatari non potevano non riconoscere come integralmente morotee.
In altre parole, se le lettere dal carcere di Moro rappresentano una langue disordinata e a tratti contorta, Sciascia si assume il compito di reintegrare la parole unica e peculiare dell’uomo che un altro sistema linguistico, quello mediatico in linea con quello dei suoi colleghi parlamentari, aveva già proiettato in una dimensione agiografica (l’uso ripetuto dell’aggettivo statista che, secondo Sciascia, Moro, di fatto, non era) prima ancora della conclusione ‒ tragica ‒ dell’affaire).
Il Moro delle lettere – afferma e dimostra Sciascia con la sua certosina indagine filologica – è un Moro psicologicamente autentico, che non vuole morire in nome di uno Stato «forte coi deboli e debole coi forti» (Nenni).
Ma questo Moro venne in pratica dichiarato incapace di intendere e di volere, la posizione dello Stato italiano restò ferma sulle sue posizioni di non negoziare in alcun modo con i terroristi. Giudicare se questo atteggiamento di fermezza sia da condividere o da rifiutare non è il compito di chi scrive. Sciascia invece non ha paura di esprimere chiaramente il suo punto di vista al riguardo. E tuttavia la forza di questo libro a distanza di quarant’anni consiste proprio nel metodo col quale l’autore prova a restituire al lettore (anche contemporaneo) l’immagine e la memoria degli ultimi giorni di Aldo Moro, non come quella di un martire che si è sacrificato per lo Stato ma come quella di un uomo chiamato a scontare una pena non sua: «il meno implicato di tutti» lo definisce Pier Paolo Pasolini nel cosiddetto Articolo delle lucciole pubblicato il 1 febbraio 1975 sul Corriere e che Leonardo Sciascia non si stanca mai di ricordare nel corso del suo breve volume L’affaire Moro.