Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson (Adelphi Editore) è prima di tutto un abile gioco narrativo.
Con toni ovattati e meravigliosamente sardonici la giovane Mary Katherine, Merricat per tutti, narra della grande casa in cui vive insieme alla sorella maggiore Constance e allo zio Julian, unici superstiti della famiglia Blackwood, morti avvelenati sei anni prima, nella sala da pranzo del Castello. Ciononostante, e a dispetto anche della diffidenza e dell’emarginazione a cui l’intera popolazione dell’amena cittadina che ospita la casa avita paiono averli condannati, tutto sembra, almeno nelle prime pagine, scorrere con serena e idillica tranquillità, scandita dai ritmi di una routine quotidiana e del ciclo naturale dettato dalla coltivazione di frutta, ortaggi e fiori che, insieme alla cucina, rappresentano i punti cardinali dell’esistenza di Constance.
Due volte a settimana Merricat scende in paese per fare la spesa.
Un pomeriggio a settimana Helen Clarke passa per il tè.
Un ingranaggio perfetto che Merricat cerca di proteggere ulteriormente con piccoli tocchi stregoneschi, come disseminare amuleti in giro per il giardino o inventare parole magiche a mo’ di formule e incantesimi.
Questa atmosfera – a metà tra il folle e il fiabesco – è spezzata dall’arrivo del cugino Charles, una crepa che si allarga fino a distruggere il mondo protetto dei rimanenti Blackwood. La Jackson crea due mondi paralleli, quello dei Blackwood e quello del mondo esterno, del paese e dei suoi abitanti; due mondi che si sfiorano periodicamente senza mai incrociarsi davvero. Almeno fino all’arrivo del cugino Charles. Non a caso, da questo momento in poi tutto cambia. È l’inizio della fine per Constance, Merricat e Julian.
Romanzo sottilmente perturbante, breve, scorrevole, ipnotizza letteralmente il lettore che al termine della lettura sembra quasi risvegliarsi da un sogno sfumato e ingannevole. L’autrice è bravissima a dire senza raccontare, a disseminare dettagli come indizi ma a rifiutarsi di fornire chiavi di interpretazioni, lasciando la storia aperta a qualunque inferenza possa crearsi nella mente di chi legge dove si formano domande, congetture, ipotesi destinate a restare senza soluzione. Ed è proprio questa mancanza, questa apparente lacuna, a esercitare il massimo dell’inquietudine.
Un gioco ben congeniato dove anche la follia e le sottili perversioni dei protagonisti passano sottotraccia, trasmettendo un senso di profondo turbamento fino alla fine che rappresenta, in definitiva, la vera cifra narrativa della storia.
I personaggi sono caratterizzati perfettamente attraverso le loro manie, le angosce, i legami, le idiosincrasie: una psicologia complessa e multidimensionale, penetrante e potente.
Lo stile è elegante, una raffinatezza che neutralizza l’angoscia sottile che pure pervade l’intero libro, fin dalle prime pagine, mantenendo alta e costante la tensione.