Le lettere da Capri di Mario Soldati è forse uno dei libri più conosciuti della bibliografia narrativa del celebre regista (cinematografico e televisivo), oltre che giornalista.
Harry è un americano, prima storico dell’arte poi maggiore dell’esercito alleato, che, durante la Seconda Guerra Mondiale, incontra Jane, sua concittadina impiegata nelle forze paramediche. I due convolano a nozze in breve tempo, per non sprecare nemmeno un istante di quella che agli occhi di tutti appare come una coppia ideale: ricca, culturalmente elevata, raffinata.
Ma quasi contestualmente all’incontro con Jane, Harry ha iniziato a intrattenere una relazione con Dorothea, una prostituta di origine pugliese che vive a Roma. Più che amore, a tenerlo indissolubilmente legato a lei è una esasperata forma di lussuria, di stordimento dei sensi, di follia al limite del patologico, visto che nella sua febbrile lucidità non riesce a nascondere neppure a se stesso il disprezzo che prova per lei, il sospetto dei suoi tradimenti e il senso di superiorità alimentato dalla colpa per l’inganno perpetrato ai danni della fragile e ignara compagna, dalla quale, nel frattempo, sono nati due figli.
L’inganno tuttavia è doppio, e tanto più mortale il colpo quando le azioni della bella, dolce, timorata di Dio Jane si scoprono essere il corrispettivo speculare perfetto delle sue meschinità.
Harry scopre dunque che la stessa Jane, ha intrattenuto a sua volta una relazione con un giovane aspirante attore italiano, rozzo e ambiguo, già prima del matrimonio. E che quella follia nemmeno il voto nuziale l’ha mai del tutto obliterata (ma, dopotutto, chi è lui per giudicarla?)
Più che una similitudine tra marito e moglie, si tratta di un perfetto gioco del doppio: modificando l’ordine degli addenti, il risultato non cambia. In un rapporto consacrato a equazione esclusiva, troppe sono le variabili perché qualcosa non sfugga generando il caos.
Le lettere del titolo sono quelle che Jane ha scritto all’amante e che, in un parossismo di equivoci procurati dalla coscienza ribelle di entrambi, solleciteranno Harry a prendere la decisione che dirotterà il resto della sua esistenza in una direzione mai nemmeno accarezzata col pensiero.
Il romanzo, vincitore del Premio Strega nel 1954, oscilla tra realismo e decadentismo, una fiaccola tremula che ormai si consuma in un complicato gioco di ombre, le ombre della coscienza, gli interstizi irraggiungibili del rapporto matrimoniale, le derive del conformismo, delle convenzioni sociali e del fatuo moralismo cristiano.
Alle loro spalle, sfondo e probabilmente ascendente ben più efficace di una cornice, la rappresentazione antropologica dell’Italia del dopoguerra, con le sue segnorine, il desiderio di rinascere, persino nell’effimero godimento della carne.
Carne che nessuno dei due protagonisti riesce mai a unire allo spirito del matrimonio, come due entità opposte e respingenti, dalle conseguenze catastrofiche.
«Noi due ci amiamo Harry, lo so. Ci amiamo di vero amore. Ma che peccato, Harry, che non ci amiamo anche nel fare l’amore!»
Magistrale è la struttura del romanzo: un diario-fiume che un Harry quasi irriconoscibile, ormai in bolletta, fa pervenire al suo amico regista Mario chiedendogli se fosse possibile trarne una sceneggiatore (si potrebbe fin quasi arrivare a ipotizzare un ennesimo campione del neorealismo cinematografico, laddove sul fronte letterario ne spegneva gli ultimi fiumi e velleità: strano destino di una stagione culturale che non seppe mai trovare una sintesi trasversale per comunicare attraverso mezzi di espressione e rappresentazione diversi…).
Ancora più formidabile lo svisceramento emotivo e intellettuale dei personaggi che restano come nudi davanti a una macchina da presa con tutte le loro contraddizioni aperte come inguaribili cicatrici.
«Ora devo entrare. Ecco mi avvio. Devo soltanto attraversare la strada. Tiro fuori la chiave di casa.
Mi chiedo se riuscirò a sfuggire un’altra volta.
Ma quando?»