Col grado di SS-Obersturmbannführer (una formazione paramilitare nazista), Adolf Eichmann, fu responsabile di una sezione del RSHA (Direzione Generale per la Sicurezza del Reich) e considerato esperto di questioni ebraiche, tanto che nel corso della famigerata soluzione finale organizzò il traffico ferroviario e lo smistamento degli ebrei nei vari campi di concentramento.
Annoverato tra i criminali di guerra sfuggiti al processo di Norimberga, si rifugiò in Argentina, per essere poi catturato in un sobborgo di Buenos Aire la sera dell’11 aprile del 1961 dal Mossad, trasdotto a Gerusalemme e processato e condannato a morte per genocidio e crimini contro l’umanità. Doveva rispondere di quindici capi di imputazione e per tutti ottenne la massima pena.
Hannah Arendet, filosofa tedesca allieva, tra gli altri, di Heidegger, e già emigrata nel 1933 dalla Germania in Francia a causa delle persecuzioni razziali, durante il processo Heichmann è inviata in Israele come corrispondente del New Yorker per descrivere il dibattito in aula in una serie di articoli in cui analizza a fondo i problemi morali, politici e giuridici dietro il caso Eichmann, ponendo domande scomode, mai manicheiste, e sottolineando sempre l’assoluta banalità di personaggi come l’imputato, un grigio burocrate che si limita a eseguire gli ordini senza minimamente impegnare una sia pur labile forma di coscienza critica.
Coscienza è, insieme a responsabilità morale soggettiva, non a caso, la parola chiave di quello che diverrà uno dei saggi fondamentali sulle ragioni e le forme di esecuzione della «soluzione finale»: La banalità del male (Feltrinelli Editore).
Eichmann, infatti, offrì di se stesso un’immagine modesta, quasi asservita, un semplice esecutore degli ordini del Führer, che negò di odiare gli ebrei e riconobbe soltanto «la responsabilità di avere eseguito ordini come qualunque soldato avrebbe dovuto fare durante una guerra».
Nel saggio la Arendt non manca di sottolineare le storture del sistema giuridico israeliano che fece di tutto per assicurarsi il diritto di prelazione sul processo, sottolineando come la linea difensiva fu quanto meno debole e lacunosa, ma anche di quello internazionale che, dopo lo shock iniziale di fronte all’incontrovertibile verità dei campi di concentramento, si sforzò presto di spazzare tutto il marciume sotto il tappeto.
In generale i ritratti che traccia per ognuno dei protagonisti (pubblici ministeri, giudici, testimoni) sono sempre lucidi e nulla concedono a un giudizio aprioristicamente positivo. Non ci sono davvero buoni o cattivi: di tutti vengono sottolineate le aporie, le contraddizioni, le ambiguità (tanto che la lettura può risultare spiazzante, talvolta).
Eichmann stesso oscilla tra il classico inetto e il finto stolido. Nonostante ciò, talvolta traspare nel suo atteggiamento un certo disprezzo e sufficienza verso le vittime che deponevano in aula.
«L’intera vicenda fu d’una normalità assoluta»
Da qui la potenza assoluta di questo libro: il male è una cosa così normale, così banale, da passarci accanto senza che nemmeno ce ne accorgiamo o se ce ne accorgiamo ci giriamo dall’altra parte. Il male non è un mostro dalle sembianze terribili e fuori dall’ordinario. È qualcosa di talmente ordinario, appunto, da passare quasi inosservato. Come dimostra Eichmann.
A meno di non mantenere sempre alto e vigile il nostro senso critico, la nostra coscienza, la nostra responsabilità.